Londonderry

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Monday, August 16, 2010

Il cantico delle periferie perdute che ha conquistato il mondo

ARCADE FIRE. Sono in sette, hanno esordito con un album ispirato da una serie di incredibili lutti, con l'ultimo “The Suburbs” hanno scalzato Eminem dalla vetta delle classifiche di tutto il mondo. Genesi della band canadese di Win Butler e della moglie Régine che urlano i malesseri di una generazione fallita.

di Antonello Guerrera
La stragrande maggioranza degli italiani non se n’è accorta, ma la musica degli Arcade Fire entra ogni sera, sottilmente, nelle loro case. La sigla del programma di approfondimento politico Otto e mezzo di La7, guarda caso, è un estratto di Rebellion (Lies), canzone di questa giovane e geniale band canadese, che proprio in settimana ha definitivamente scalzato Eminem dalla vetta delle classifiche di vendita di tutto il mondo grazie all’ultimo album The Suburbs. Uno struggente cantico delle “periferie”, inebriante e irresistibile, carbonico e brioso, levigato di intelligente piattume. Senza dubbio tra i migliori dischi dell’anno. Ma è anche vero che The Suburbs è un album di complessità ed emozioni inferiori rispetto ai due precedenti Neon Bible (2007, titolo dai predicatori religiosi estremisti della tv) e soprattutto Funeral del 2004, capolavoro assoluto degli anni Zero. Paradossalmente, però, proprio il loro album peggiore ha elevato nel definitivo olimpo della musica gli Arcade Fire, già definiti da Chris Martin «la migliore band del mondo», e da Bono degli U2 un gruppo «con le palle».
Verissimo, se solo si pensa che gli Arcade Fire sono un’orchestra rock di Montreal composta da ben sette membri fissi, più eventuali aggiunte durante i live. Tutti i componenti della band suonano una moltitudine di strumenti - dalla batteria allo xilofono, dal violoncello all’arpa, dalle chitarre al sintetizzatore - tanto che durante i concerti si scambiano i ruoli senza ritegno. Il frontman fa di nome Win Butler, un mistico werther americano (ma presto trapiantato in Canada) che pare uscito dal remake della Famiglia Addams, cresciuto a iniezioni di solitudine e credo mormonico nella periferia di Houston, prima di trasferirsi definitivamente a Montreal, dove ora il gruppo risiede.
L’altro protagonista degli Arcade Fire è l'unica donna della band Régine Chassagne. Che, ovviamente, oltre a saper cantare, sa anche suonare la batteria, il piano, la fisarmonica, lo xilofono, la ghironda, eccetera. E che, altro particolare non trascurabile, è divenuta la moglie del frontman Butler nel 2003, subito dopo la fondazione del gruppo. Entrambi guidano non solo una famiglia, ma anche una band. Da adepti del Québec, parlano e cantano in inglese e francese, anche se le famiglia di Régine non viene dal Canada, ma dalla disastrata Haiti. Da dove, poco prima che lei nascesse, i genitori sono sfuggiti alla dittatura di Jean-Claude Duvalier. Uomo nero che la Chassagne sciabola proprio nella canzone Haiti, tratta dell’album d’esordio Funeral: «I miei cugini mai nati perseguiteranno per sempre le notti di Duvalier».
Insieme agli altri componenti - tra cui William Butler, fratello di Win, e un percussionista matto shakespeariano che nei concerti rischia la vita arrampicandosi sulle impalcature -, Win e Régine hanno costruito, insieme agli Strokes, la più grande realtà della musica indie del terzo millennio. Dalla loro nascita, gli Arcade Fire, che nel 2006 hanno acquistato una chiesa sconsacrata a Farnham (vicino Montreal) per farne il loro studio di registrazione privato, hanno costretto tante giovani band a emulare il loro unico e irripetibile sound, che spazia dall’elettronica al barocco, da una lucida new wave alla classica più commestibile, dall’anthem rock al pop visionario, dalla critica alla Vonnegut all’elogio di Blake. Ma soprattutto, gli Arcade Fire sono i cantori della società postmoderna, di quelle “generazioni y” che aspettano, da «uomini moderni», qualcosa che non arriverà mai perché bruciate, stritolate tra la morte delle ideologie novecentesche e la violenza, materiale e spirituale, dei giovanissimi, imperscrutabili teenager. Intorno, tra palazzoni, inquietanti centri commerciali e guerre tra band under 15, c’è il vuoto assoluto, una società alla morfina, in attesa di una sfocata apocalisse che si nasconde in ogni piaga sociale - anche se, da ultraobamiani quali sono, un minimo di speranza negli Arcade Fire ci dovrà pur essere.
Il racconto di questa turpe realtà contemporanea è il succoso nocciolo dell’ultimo The Suburbs. Album che, per la materia trattata, è meno coinvolgente dei precedenti, ma più fresco e soprattutto più pop. Forse non rimarrà nella storia della musica, ma è il passepartout ideale per conquistare il pubblico mondiale e veicolare le autentiche opere d’arte precedenti, in primis Funeral: disco di sconvolgente e tragica bellezza - il titolo non a caso viene dalla caterva di lutti familiari che ha colpito la band durante la sua registrazione -, un mondo parallelo di lucida paranoia metropolitana. Perciò ci sono quattro canzoni/capitoli del loro etereo romanzo che si chiamano Neighborhood, ovvero “quartiere”, che viaggiano tra un'adolescenza amorfa e la caccia a un sospiro vitale tra le periferie di Houston.
The Suburbs, album che Butler ha definito figlio dei Depeche Mode e di Jeff Buckley e che parte con l'omonimo pezzo che pare il remake drogato del Ragazzo della via Gluck, è lo sbocco naturale, disilluso e anestetizzato di Funeral, soprattutto se si pensa al gioco di luci tanto caro agli Arcade Fire. Se nel 2004 le ombre e abbagli delle loro canzoni si susseguivano schizofrenici su di un palco tormentato, incapaci di allietare le anime afflitte dei sobborghi delle metropoli (da «i vicini possono ora ballare nelle luci da discoteca della polizia» a «le luci delle strade sono tutte bruciate, une année sans lumiere»), in The Suburbs si passa, come nella bifronte Half Light, da «nella luce a metà saremo liberi» a «ho bisogno delle tenebre, qualcuno distrugga le luci». Il tutto perché la realtà “illuminata” e sporcata dalla crisi economica non può essere più vissuta come prima.
In questo senso, è emblematica la copertina pastello dell’album, una macchina vuota e ferma in modalità drive-in. Ma davanti non c’è né un grande, né un piccolo schermo (la tv è un incubo dichiarato degli Arcade Fire), bensì una casa, «dalle finestre insufficienti per ascoltare le voci umane, si sente solo un'eco» (Half Light I). Eco che si insinua anche nei testi, forgiati da un inglese a tratti anche troppo semplice, dove alcune parti sono copia-incollate tra le diverse canzoni. Eco che risuona straziante in Rococo, dove i bambini moderni cantano canzoni orrende e incomprensibili e dove si percepisce una tortuosa malinconia dell'azzima giovinezza. Eco che si insinua nell’asfalto sempre più vischioso delle periferie, dove il grigio cemento armato domina a differenza del precedente universo di Neon Bible, album registrato sulle rive del fiume Hudson, già luogo di morte in Kerouac e Burroughs (And The Hippos Were Boiled in Their Tanks).
Gli Arcade Fire saranno in Italia per l'unica data live il 2 settembre, nello scenario ribelle dell’Independent Day di Bologna. Luogo forse poco consono alla loro intimità esistenzialista, per un tour che tuttavia è stato inaugurato la notte dello scorso 5 agosto nella bolgia del Madison Square Garden di New York. Un concerto che YouTube ha trasmesso in diretta con la regia dell'ex Monty Python Terry Gilliam. Il battesimo più scintillante per una band che ha già riscritto la storia della musica.

Da Il Riformista, 15/08/10

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