Londonderry

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Tuesday, June 22, 2010

"Il futuro mi mette angoscia" - Intervista a Jonathan Coe


di Antonello Guerrera

Sedici anni dopo La famiglia Winshaw e la critica all’Inghilterra thatcheriana, era lecito aspettarsi da Jonathan Coe un affondo ai rampanti (e rampolli) conservatori. Del resto, gli appigli (i tagli, il change, il parallelo Lady di Ferro-Cameron) c’erano tutti. Invece, no. Dopo l’ultimo La pioggia prima che cada, forse il libro più apolitico dello scrittore di Birmingham, Jonathan Coe torna domani nelle librerie italiane con l’atteso I terribili segreti di Maxwell Sim (Feltrinelli, 368 pp., 18 €). Dove la politica pura dei Winshaw, della Banda dei brocchi o del sequel Circolo Chiuso è oramai latitante.

«Tuttavia, credo che Maxwell Sim abbia comunque una dimensione politica», ribatte Coe al Riformista. Questo perché il protagonista Maxwell, un inglese di età e prospettive medie, è nel bel mezzo dell'ultima apocalisse finanziaria. In un mondo dove i deboli sono quelli che di economia, come Max, non capiscono un tubo. «La crisi finanziaria è decisiva nel libro. Ma è anche vero che, rispetto ai romanzi precedenti, sono meno politico, mi focalizzo di più sulla coscienza individuale: memoria, immaginazione, sessualità». In fuga dalla realtà (e dalla crisi), Max andrà a vendere spazzolini ecologici in Scozia, odissea-metafora della tragica leggenda del navigatore Donald Crowhurst.

Un altro tema fondamentale dei Terribili segreti di Maxwell Sim sono le conseguenze della tecnologia odierna. Ovvero come, nonostante le mail, i blackberry e Facebook, uomini come Maxwell vengano incatenati dalla solitudine. «Il mio romanzo prova proprio a chiedersi se il valore delle relazioni virtuali sia lo stesso di quelle “reali”». La risposta è straniante: Maxwell ha 70 amici su Facebook, ma nessuno di questi scrive mai sulla sua bacheca. La sua casella mail è travolta da spam sessuale. L’ex moglie si confessa agli sconosciuti su Internet - tra cui lo stesso Max “mascherato”. E il navigatore satellitare è l'unico compagno di viaggio. «Se penso al futuro, provo timore», confessa Coe, «ma cerco di non essere pessimista. Le mie figlie amano tutte le nuove tecnologie: Facebook, Skype, i videogiochi. Ma quando cominceranno a capire il mondo e la società corrotta che erediteranno, spero sapranno rimediare ai nostri errori».

Quanto influisce la tecnologia su uno scrittore di oggi? Anni fa, Coe diceva di sedersi e vagabondare in Internet in attesa dell’ispirazione. Oggi, ha cambiato idea: «La Rete può rivelarsi una grande distrazione e un’incredibile perdita di tempo. Al contrario, da sempre, l’ispirazione viene dalle interazioni tra esseri umani. Su Internet non puoi trovare nulla che sia più utile di trascorrere cinque minuti in un caffè ad ascoltare le persone intorno».

Il rovescio della medaglia della tecnologia, oltre alla solitudine, è ovviamente la privacy. Parola che appare anche nel titolo originale del libro (The Terrible Privacy of Maxwell Sim). Azzardo a chiedere a Coe cosa ne pensa della “legge bavaglio”, di cui parla anche la Bbc: «Difficile dirlo. Ma…» Ma? «Naturalmente credo nell’assoluta libertà di stampa, ma i giornalisti dovrebbero usarla responsabilmente. Le abitudini sessuali dei politici, per esempio, non sono una materia di interesse pubblico, a meno che non siano legate ad attività criminose».

Allora chiedo a Coe, di vecchie simpatie laburiste, chi abbia votato alle ultime elezioni: no comment. Però fa capire di non aver votato Cameron: «Sa parlare, ma dobbiamo giudicare le persone dai fatti. In questi giorni i conservatori stanno annunciando i tagli alla spesa pubblica. Ora cominceremo a scoprire che razza di governo è questo. Temo un futuro nero per i britannici, specialmente per quelli più poveri». Meglio i laburisti ancora senza un leader? «Credo che, in generale, la maggior parte dei politici britannici sia di livello davvero mediocre, se confrontati a quelli, per esempio, di venti anni fa. Le persone di sani principi non sono più interessate alla politica. Che oggi», dichiara Coe, «è governata dalle banche e dalle corporation. I leader di partito non contano più». E il suo vecchio “amore” Blair? «Quando sento la sua voce in radio mi vengono i brividi. Ora è ossessionato dalla religione e dall'inquietante certezza morale di esser sulla Terra per realizzare il volere di Dio».

A questo proposito, domando all’ateo Coe se sia possibile il mondo senza religioni sbandierato dai connazionali Dawkins, Pullman eccetera. «Certo, che è possibile», risponde lo scrittore. «Però la gente è così superstiziosa che non si verificherà per centinaia di anni. E in quel momento forse l’umanità sarà stata sterminata da una guerra religiosa». C’è un problema “islam” oltremanica, come recentemente dichiarato dal Nobel Soyinka («la Gran Bretagna è la fogna dell’estremismo islamico»)? «No», risponde deciso, «la grande maggioranza dei musulmani è moderata e pacifica. Non mi riconosco nelle bizzarre descrizioni di Soyinka, però è vero che la Gran Bretagna si sta sovrappopolando. Sarebbe una buona idea iniziare a restringere i flussi migratori».

Ad ogni modo, Coe avrà perso la fede in Dio, ma non in Capello. Ammette «il gioco orribile di una squadra senza speranza come l’Inghilterra» e «la vergogna di tutta una nazione, oramai sempre più depressa e stanca di vedere i Mondiali». Ma non getta la croce addosso al tecnico friulano: «La colpa è dei giocatori, che prendono stipendi enormi, che fanno bisboccia, ma che non hanno il carattere per giocare a livello internazionale». Chissà, magari la squadra di Capello è solo una metafora dell'attuale state of the nation. Cosa significa essere britannici nel terzo millennio? «Scrivo romanzi proprio per riuscire a capire cosa sia la Gran Bretagna oggi. Ma, dopo nove libri, sono ancora molto lontano dalla soluzione di questo mistero...».

Da il Riformista, 22/06/10

Thursday, June 10, 2010

La musica che boicotta (sempre di più) Israele


di Antonello Guerrera
Sembra che per alcuni ci sia un virus che (ri)affligge la musica internazionale. Questo virus si chiama Israele. A pochi giorni dal controverso blitz della marina militare di Tel Aviv contro le navi della Freedom Flotilla, cresce il numero di cantanti e band che rinunciano a esibirsi all’ombra della stella di David, mandando così all’aria concerti fissati da mesi. Uno scenario antagonista purtroppo già visto in ambito culturale, basti pensare alle polemiche del Salone del Libro di Torino di due anni fa – dove a Israele veniva rimproverato lo status di Paese ospite – o al manifesto di Ken Loach al Festival di Edimburgo del 2009 – quando alcune centinaia di euro dell’organizzazione per pagare il viaggio a una regista di Gerusalemme invitata alla kermesse vennero definiti «sporchi di sangue».
L’ultima défaillance viene dai Pixies, band americana dell’indimenticabile Where Is My Mind. Il motivo ufficiale non è ancora chiaro e nemmeno la storia “politica” del gruppo è di grande aiuto. Ma diverse fonti parlano di una decisione presa in seguito al blitz della Flotilla, dopo che, già in marzo, gli attivisti di “Boycott!” avevano fatto pressioni alla band americana di dare un segnale forte al governo israeliano. Detto, fatto.
Poco prima, però, erano stati annunciati altri dietrofront eccellenti. Quello che ha fatto più scalpore, e risale a due settimane fa, è stato il cantautore britannico Elvis Costello, che ha rinunciato al suo live in Israele per «una questione di coscienza», aggiungendo alla Depeche Mode: «A volte il silenzio in musica è meglio di rimanere fermi». Una mossa estrema, dopo che Costello anche in passato si era esposto politicamente, vedi il caso Falklands. Ma è anche vero che pochi giorni prima di rinunciare a Israele, Costello aveva fatto capire al Jerusalem Post di non amare i boicottaggi. Invece, ecco il dietrofront, nonostante la moglie Diana Krall abbia invece confermato la sua performance israeliana in agosto.
Ancora qualche settimana prima di Costello, però, era stata la volta degli inglesi Klaxons e Gorillaz (del già leader “Blur” Damon Albarn), e soprattutto del leggendario Carlos Santana, che ha cancellato il suo concerto di Giaffa senza troppi complimenti. Ufficialmente per «un’imprevista sovrapposizione di esibizioni». Ufficiosamente, come riferito dal quotidiano israeliano Yediot Achronot, in seguito alle «pressioni ricevute da gruppi anti-israeliani». A questi, va aggiunto anche il musicista (e attivista afroamericano) Gil Scott-Heron, che doveva originariamente esibirsi a Tel Aviv il 25 maggio ma che ha ceduto, come gli altri, alle pressioni di diversi gruppi di attivisti anti-israeliani. Causa scatenante, il concerto del 24 aprile a Londra, quando una manciata di filopalestinesi ha inscenato una protesta contro Israele. Finita l’esibizione, Scott-Heron ha annunciato che non avrebbe più suonato a Tel Aviv.
Anche il controverso cantante hip-hop americano Snoop Dogg ha rinunciato alla trasferta in Medio Oriente. Qui però le cause sono ancora più nebulose. Si è parlato di boicottaggio, ma anche di snobismo, visto che l’artista non avrebbe raggiunto le prevendite di biglietti desiderate. Senza contare, poi, i boicottaggi di artisti mai resi pubblici perché opportunamente insabbiati: la testata ebraica di New York Forward ha parlato, tramite un anonimo promoter di concerti in Israele, di ben 15 artisti internazionali che avrebbero scartato l’ipotesi di esibirsi a Tel Aviv nonostante compensi super.
Ma per gli estremisti del boicottaggio suonare in Israele significa, incredibilmente, anche sporcarsi di un’onta, o un virus, indelebile. Era già successo l’anno scorso a Leonard Cohen, che si vide costretto a cancellare un concerto estivo in Cisgiordania. Ieri sera, è capitato lo stesso alla rock band inglese dei Placebo che hanno spaccato in due il Libano, dove era in programma un concerto dopo però essersi esibiti anche in Israele. «Giusto accoglierli?», ci si chiedeva a Beirut. Un dilemma ancora più scottante, perché il leader del gruppo Brian Molko, alla luce degli ultimi avvenimenti, si era schierato con Israele. Dagli ai Placebo quindi, con Jihad al-Murr, l’organizzatore del concerto libanese, che aveva dichiarato trasalito all’Afp: «Si tratta di un concerto che non ha nulla a che fare con la politica. Allora dovremmo boicottare tutti i ministri, le autorità e gli artisti che sono stati già in Israele. È ridicolo». Ora l'offensiva degli attivisti anti-Israele passa ad altri big, primo tra tutti Elton John che si esibirà a Tel Aviv a metà giugno. Ma convincerlo, visto che ha suonato anche tra le minacce omofobiche in Marocco, non sarà facile.

Da Il Riformista, 10/06/10

Tuesday, June 8, 2010

Abortire dopo la provetta, scandalo inglese


di Antonello Guerrera
Il recente spot sull’aborto, andato in onda due settimane fa nel palinsesto serale Channel 4, per il momento non c’entra nulla. Ma in Gran Bretagna l’interruzione di gravidanza è tornata violentemente a far scandalo, dopo che la Human Fertilisation and Embryology Authority (Hfea) ha diffuso alcuni dati sconcertanti: nonostante dilanianti sforzi fisici nonché economici, decine e decine di donne fecondate artificialmente in vitro (la tecnica di procreazione cosiddetta Fivet) decidono ogni anno di mandare tutto all’aria e abortire.
La quantità di casi stimata dall’Hfea si attesta intorno alle 80 unità. Cifra nettamente superiore alle attese (nel 2008 c’erano state 65 donne che avevano intrapreso simili interruzioni, in calo dopo le oltre 90 dell’anno precedente). E se qualche anno fa la colpa degli aborti veniva ben volentieri data alle immigrate dell’est (“ree” di non essere state educate a sufficienza sessualmente) non è servito ai meno allarmisti dire che le famigerate ottanta mamme pentite costituiscono solo l’1 per cento di coloro che si sottomettono alle fecondazioni artificiali.
In un Paese dove l’educazione sessuale dà sempre meno frutti del previsto e dove si praticano ancora oggi 200mila aborti all’anno (cifra ingrossata dalle viandanti irlandesi e nordirlandesi fuorilegge in patria), ci sono ottanta mamme lunatiche che prima scelgono di fecondare artificialmente e dopo qualche settimana decidono di abortire. Metà di esse avrebbe tra i 18 e i 35 anni.
Ma, oltre ai numeri, il Paese è rimasto scioccato dalle presunte motivazioni additate a tali aborti, riportate dall’Hfea ma anche dai racconti di mamme pentite (ma sotto pseudonimo) pubblicati dal Times: problemi con il partner ma anche dispetti al partner, pressioni inaspettate, paure crescenti di procreare o, addirittura, puri e semplici ripensamenti. Il Sun si spinge oltre, parlando di donne talmente poco convinte di diventare mamme che si sarebbero sottoposte alla fecondazione in vitro solo per vedere se il metodo funzionava. Il resto interessava poco, anzi nulla.
Dopo simili ricostruzioni, dall’Hfea parlano, tramite il professor Bill Ledger, apertamente di «tragedia». Mentre le associazioni per la vita sono andate su tutte le furie, come la ProLife Alliance: «Un essere umano non può che rimanere scioccato da comportamenti simili». Mentre la cattolica Ann Widdecombe, ex parlamentare conservatore e ministro del governo Major, ha dichiarato che donne simili trattano i loro feti come «vestiti di marca» e ha aggiunto polemica: «Se la legge funzionasse a dovere, non sarebbe loro permesso di abortire solo perché hanno cambiato idea».
C’è anche chi cerca di buttare acqua sul fuoco come il consultorio British Pregnancy Advisory Service: «La gravidanza post provetta può generare gli stessi timori di una ottenuta naturalmente». Ma la polemica è oramai esplosa e continuerà nei prossimi giorni, quando verranno rese pubbliche le cifre su quanti di questi aborti siano stati effettuati per preservare la salute delle donne in gravidanza.
Per adesso, tuttavia, un dato già c’è. Per permettere alle “lunatiche” di abortire, il servizio sanitario britannico Nhs arriva a spendere anche 5mila sterline a testa. Senza contare il prezzo delle costosissime inseminazioni artificiali, parte delle quali finanziate dallo Stato. Costi un po’ troppo elevati per certi macabri capricci di alcune aspiranti mamme.

Da Il Riformista, 08/06/10

Sunday, June 6, 2010

Scandalo in UK dopo decine di aborti post fecondazione in vitro


Scandalo in Inghilterra per decine e decine di aborti di donne che avevano impiegato mesi per fecondare in vitro. Cause: dispetto al partner, crisi di coppia, stanchezza, ripensamenti etc. Forse un'inchiesta. Due crudi articoli, con storie e altri particolari, qui:

http://www.timesonline.co.uk/tol/life_and_style/health/article7144899.ece
http://www.dailymail.co.uk/health/article-1284384/IVF-babies-aborted-women-change-minds.html

Il 24 maggio, Channel 4 aveva trasmesso in tv il primo spot per abortire della storia del Regno Unito: http://www.thesun.co.uk/sol/homepage/mysun/2980802/Right-to-air-abortion-advert.html

Friday, June 4, 2010

Un altro curatore Usa incriminato in Italia? Il New York Times è già in allarme


di Antonello Guerrera
Prima del caso Breuer e le sue dichiarazioni sul controverso ddl intercettazioni del governo Berlusconi, nel 2009 l’ex ambasciatore americano in Italia Ronald Spogli si scagliò contro i mali del Belpaese, tra questi la giustizia atrofizzata. Se però la giustizia italiana si muove nei confronti di un cittadino americano, capita che qualcuno storca il naso a stelle e strisce. Ieri il New York Times ha pubblicato un ansioso articolo nei confronti delle indagini su J. Michael Padgett. Un 56enne curatore del Princeton University Museum of Art, al centro di un’inchiesta italiana su «esportazioni illegali e riciclaggio di denaro sporco». «Ancora una volta», si legge nell’articolo del redattore newyorchese Hugh Eakin, «un americano potrebbe rischiare di essere arrestato in uno stato straniero per aver acquisito oggetti d’arte per un museo. Una cosa», prosegue il giornalista, «che molti addetti ai lavori credevano non accadesse più».
Parole forti. Il New York Times dice di aver preso visione del documento che certifica le indagini preliminari nei confronti di Padgett al quale, tuttavia, non è stata ancora formalizzata un’accusa dalla magistratura italiana. Padgett, a cavallo tra 1990 e anni zero, avrebbe acquistato circa 20 opere d’arte (vasi, bronzi e sculture) da Edoardo Almagià, ex studente di Princeton e collezionista più volte incriminato per traffico clandestino di arte antica, ceduta a una moltitudine di musei americani. «Sono innocente», ha detto Padgett al quotidiano americano. «Accuse ridicole», ha dichiarato a ruota il «perseguitato» Almagià. Mentre l’ex direttore del Metropolitan di New York Philippe de Montebello, che proprio con l’Italia ha condotto le trattative per la restituzione/armistizio del Cratere di Eufronio (ora al Villa Giulia di Roma), si è detto «scioccato» dalla notizia pubblicata dal Nyt.
La questione tocca diversi punti delicati. Innanzitutto, ricicla l’eterno dilemma dell’arte “trafugata”, che tra Italia e Stati Uniti negli ultimi anni ha calcato un sentiero avido di polemiche. Non a caso l’articolo ricorda diversi casi spinosi del patrimonio artistico conteso dai due Paesi, tra questi quello della curatrice delle antichità del Getty Museum di Los Angeles Marion True, sotto processo in Italia dal 2005 per associazione a delinquere e ricettazione. «In cinque anni non si è ancora giunti al verdetto», si legge sul New York Times. «Ma la carriera della signora True è già stata distrutta». Ora, la possibilità di un secondo processo italiano nei confronti di un curatore americano ha messo in allarme il quotidiano: «Le autorità di entrambi i Paesi avevano parlato di una nuova era di collaborazione». Ma adesso, «le premesse di una riappacificazione sembrano essere messe a repentaglio».
Eppure, lo riconosce lo stesso quotidiano newyorchese (oltre alla legislazione del nostro Stato), gli accordi di non belligeranza tra musei italiani e americani non escludono assolutamente indagini della magistratura, qualora quest’ultima, in quanto indipendente, lo ritenga necessario. Il Mibac ieri non ha commentato ufficialmente l’articolo del Nyt. Ma la sensazione dal ministero è che comunque tra i due Paesi i rapporti “artistici” rimarranno più che buoni, nonostante l’articolo e nonostante dispute artistiche ancora in gioco, vedi l’ultima vicenda dell’Atleta di Fano reclamato al Getty dal gip di Pesaro lo scorso febbraio. Proprio il Getty, difatti, nell’ambito dello scambio di reperti tra Italia e Stati Uniti, restaurerà prossimamente due apolloi “italiani”, impegnando centinaia di migliaia di euro. E il Metropolitan ha appena prestato I Musici del Caravaggio per la mostra di Roma alle Scuderie del Quirinale. Insomma, il clima disteso tra i due Paesi è destinato a perdurare. Ma nel caso in cui Padgett dovesse, in un futuro più o meno prossimo, venire formalmente incriminato, le reazioni dei quotidiani Usa dopo l'articolo-avvertimento del Nyt potrebbero infiammare (nuovamente) la questione.

da Il Riformista, 04/06/10

Comedy Central, debole con l'islam, spietata con Cristo?


di Antonello Guerrera
Deboli con i musulmani, “forti” con i cristiani? Il dubbio è lecito, dopo che Comedy Central, canale americano del gruppo Viacom e in Italia su Sky grazie a Mtv Italia (Telecom) e Mtv Europe, ha annunciato il possibile lancio negli Usa di JC, ovvero Jesus Christ, ovvero Gesù Cristo: serie televisiva animata, e per una buona fetta di credenti blasfema, tutta dedicata al profeta cristiano, in veste ultraumana. La notizia del canale che trasmette anche l’irriverente South Park (che contro Gesù e il cristianesimo vanta un lungo curriculum di offensive, per non parlare degli ebrei) era già arrivato in maggio, facendo storcere il naso a molti. Ma ora diversi leader e organizzazioni religiose hanno unito le forze e invieranno a Comedy Central e Viacom una vera e propria petizione per bloccare la messa in onda di JC. Il cui stato di produzione, detto per inciso, è ancora sconosciuto agli spettatori, nonché alle stesse autorità «oltraggiate».
Si sa soltanto che Cristo verrà ritratto, alla stregua di una sciroccata di Sex and the City qualsiasi, come un ragazzo sempliciotto, alle prese con una nuova vita a New York, che cerca di emanciparsi dal padre Dio. Un genitore potente ma apatico, che passa le ore a giocare ai videogiochi, fregandosene palesemente delle problematiche del figlio. Pochi ma fulminanti revisionismi, già precorsi più violentemente, almeno a parole, dall’americano James Frey (il controverso scrittore di In un milione di piccoli pezzi e dell’ultimo, sorprendente Buongiorno Los Angeles, Tea Libri) e ultimo da Philip Pullman e che hanno infiammato le proteste della Coalition Against Religious Bigotry (Carb). Un'organizzazione che include esponenti del Media Research Center, del Parents Television Council (una sorta del nostro Moige, Movimento Italiano Genitori), della Lega Cristiana e dell’Alleanza Ebreo-Cristiana. Tutti contro Comedy Central al motto di «bloccate quel cartone». Si legge nella petizione: «È chiaro che l’intento dello show è quello di denigrare ancora una volta la religione praticata dall’ottanta per cento degli americani».
La protesta è ancora più pepata perché JC arriva proprio poche settimane dopo che Comedy Central, a seguito delle inquietanti minacce fondamentaliste ricevute su Internet, ha censurato la scena di Maometto travestito da orso in una recente puntata di South Park. South Park che non si pone, al contrario, scrupolo alcuno per bastonare la figura di Cristo. Se si è alla ricerca di un valido abstract, basta guardare il video con alcuni estratti dalla serie animata americana caricato proprio sul sito della Carb che vede, ad esempio, Kyle (uno dei quattro ragazzini protagonisti di South Park) uccidere Gesù con una coltellata alla gola. Oppure lo stesso Gesù, in versione ninja, attentare alla vita del Papa. «La doppia faccia che Comedy Central mostra prima all’islam e poi al cristianesimo è roba da fanatismo», si legge ancora nella petizione della Carb.
Oggi la Carb terrà la prima conferenza stampa sulla questione e di certo proverà a sfilacciare l’impalcatura di JC, che è prodotto dalla casa Reveille (quella di Ugly Betty, The Office e I Tudors). Comedy Central per il momento non parla e non ha fatto sapere a che punto è la produzione. Le quotazioni per il lancio di JC sono sicuramente scese dopo le polemiche delle ultime ore (e soprattutto dopo il riverbero del caso “Maometto-South Park”). Ma viste le premesse, forse Comedy Central non rinuncerà al suo nuovo programma, seppur in forma più blanda. Del resto, vuoi mettere l’impatto di una pacifica petizione in confronto a delle minacce di morte su Internet?

Da Il Riformista, 03/06/10

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