Londonderry

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Tuesday, December 21, 2010

Come vivere con 36mila dollari l'anno? I tormenti economici (e letterari) di Fsf


di Antonello Guerrera
Correva il giorno ventun dicembre 1940 quando il cuore di Francis Scott Key Fitzgerald ne ebbe abbastanza di battere. A settant’anni esatti dalla sua morte, avvenuta pochi anni prima della sua inseparabile e controversa “Southern belle” Zelda Sayre, Mattioli 1885 ha appena pubblicato Vivere con 36mila dollari all’anno. Una fulminea manciata di racconti e una riflessione critica - scorpacciabili in un pendolare viaggio di andata - pubblicati su Saturday Evening Post e The Bookman tra il 1920 e il 1926, nel pieno degli anni ruggenti poi falcidiati dalla Grande Depressione del ‘29.
Sono scritti molto interessanti perché mettono a fuoco il primo Fitzgerald, quello del trasparente autobiografismo, quello che con il successo con Di qua dal paradiso (pubblicato comunque non senza difficoltà) era subito asceso tra i giovani scrittori più travolgenti. Per poi essere considerato, in morte, una promessa bruciata. Anzi, «un dissipatore di grande talento», come lo definirà Dos Passos.
Un successo iniziale che incarnerà l’ossimoro dell’opera e della vita di Fitzgerald, «il più stupefacente, il più geniale e autodistruttivo dei ragazzi perduti» (Alfred Kazin dixit). Ovvero la bella maschera dell’America sopra i fantasmi di declino economico, sociale e morale che covano nelle viscere. Nei racconti, un po' farseschi, Come vivere con 36.000 dollari l’anno e Come vivere praticamente con niente di questo agile libretto lo scrittore, grazie ai suoi primi scritti, è diventato ricco e con la fresca moglie (Zelda) comincia a sguazzare nell'Età del Jazz, tra alcol, vizi, lussi e lazzi, dalle piscine giornaliere ai «giardini azzurri» e alle «voci piene di soldi» del Grande Gatsby che irromperà di lì a poco. Peccato però che i soldi comincino a essere pochi per le follie mondane della coppia. Ma del resto “perder tempo” ad accumulare denaro ha molti lati negativi, ci dirà sempre Gatsby. E così i due decidono prima di trasferirsi nel vertiginoso paradiso borghese dell'East Coast. Poi, visto che i piani di contenimento delle spese fanno acqua da tutte le parti, i Fitzgerald partono per la Riviera francese, famosa per il risibile costo della vita e già oasi di piacente atarassia per Dickens, Caterina de’ Medici e Wilde.
Ma le cose non vanno come previsto. In Vivere con 36mila dollari all’anno, l’involontaria ma lucida metafora della famiglia Fitzgerald e dell’America intera - come in tutta la bibliografia dello scrittore di St.Paul - comincia a baluginare nei flashback della figlia che vuole prendere la barca e tornare in America. Come le crisi economiche del terzo millennio hanno suggerito, i soldi sono un’illusione, la bancarotta è ineludibile e così Francis Scott comincia a scrivere a raffica per cercare di rimanere a galla e pagare i debiti. Ma il fondale è sempre più vicino. E la corrente è sempre contraria – ci dirà il decadente sipario del Grande Gatsby. Di sfondo una Francia pastello, altra metafora (seppur parziale) di quella Generazione perduta, esiliata e coniata nel garage di casa di Gertrude Stein - come cita Hemingway in Fiesta.
Vivere con 36mila dollari all’anno si chiude con altri due brevi scritti. Uno è Who Is Who, dove il già famoso Fitzgerald racconta la sua battaglia «tra l’impellente bisogno di scrivere e l’insieme delle circostanze che da sempre» hanno tentato di impedirgli di pubblicare Di qua dal paradiso. Infine, Come sprecare il materiale: una nota sulla mia generazione reca un affondo alla critica letteraria del tempo, cui ampi stralci potrebbero essere facilmente applicati a quella attuale. C’è una stucchevole «febbre letteraria» nell’America dei Venti, dove si rincorrono improbabili giovani talenti («mocciosi irrequieti», li chiama), il cui destino non è altro che sciogliersi nell’oblio: «Una letteratura già morta, quasi non fosse mai stata scritta», scrive Fitzgerald. Il tutto a scapito della ricerca della vera opera immortale. Si salva, in questo salatissimo calderone, il giovane Ernest Hemingway dei racconti di in our time, che incarna, secondo la profezia dell'autore di Tenera è la notte, una vera svolta per la letteratura americana. Fu proprio lui a lanciare e raccomandare lo scrittore de Il vecchio e il mare al suo editore e quindi alla storia della letteratura. Ma Hemingway non gliene fu molto grato, vedi Gli ultimi fuochi da lui bollati come «pancetta affumicata». Hemingway, nonostante tutto l'aiuto ricevuto, non sopportava quell’eccentrico alcolizzato dalla scrittura divina. Una volta, Fitzgerald lo costrinse addirittura alla misura comparata dei propri organi genitali, dopo che la moglie Zelda ne criticava costantemente le performance sessuali, accusandolo di latente omosessualità. Troppo per Ernest.

Da Il Riformista, 21/12/10

Saturday, December 18, 2010

Addio Larry, e non è un funerale! Noia, melensaggine e lacrime prima dall'addio


di Antonello Guerrera
«Questo non è un funerale», implorava il comico Bill Maher, ospite allo show. Ma i calorosi appelli non hanno prosciugato la commozione che ieri notte ha colto Larry King, storico anchorman della Cnn, all’ultima puntata del suo show dopo «venticinque anni e mezzo» di onorata carriera. Cravatta rossa a pois bianchi, le solite bretelle, anch’esse scarlatte e fiammanti, il pugno di qualità sotto il mento. E un King visibilmente scosso alla sua ultima apparizione ufficiale, anche se non lascerà del tutto la Cnn, concedendosi qualche comparsata di qui alla definitiva pensione.
Ma l’ultima è stata anche una delle sue puntate più noiose, un’overdose di melensaggine. Stavolta gli illustri ospiti che King per un quarto di secolo ha scartocciato con domande secche, improvvise e anche improvvisate – non si informava più di tanto sulle sue “vittime” – hanno preso il sopravvento dello stanco padrone di casa, intavolando un tristissimo brindisi – il coretto God Bless America del sipario del Cacciatore non avrebbe sfigurato - e gli hanno tessuto le lodi più alte: da Obama a Bill Clinton, da Arnold Schwarzenegger a Donald Trump, in studio o collegamento, tutti hanno avuto adulatorio campo libero di fronte a un Larry già a mezzo servizio. Ma era anche l’ultimo giorno di scuola, e quindi tutto era concesso. Anche il deprimente lancio «è dura dirlo, ma questa è l’ultima volta». È stato lo show più difficile per Larry King, pseudonimo di Lawrence Harvey Zeiger strappato a una pubblicità “alcolica” per diventare, nomen-omen passepartout, il re dell’informazione americana. Per un addio in sensibile anticipo sulla tabella di marcia che recitava 2011 inoltrato. Gli ascolti in veemente discesa e la morsa delle schierate Msnbc e Fox News nei confronti della “troppo oggettiva” Cnn non hanno fatto altro che accelerare, freneticamente, la sua abdicazione. Prima di una caduta che sarebbe stata fin troppo vergognosa.
Purtroppo, gli ascolti del Larry King Live erano ai minimi degli ultimi 15 anni, dimezzati rispetto ai picchi del 2000. Ma questo non ha fatto dimenticare le sue 50mila interviste: la sua preferita a Muhammad Alì, quella del bacio omosex con Marlon Brando, Frank Sinatra, le 29 apparizioni di Bill Clinton, l’ultima di Sniper nel ciclone fiscale, sino alla candidatura presidenziale dell’imprenditore texano Ross Perot. Era il 1992.
Diciannove anni dopo quello scoop, gli americani della sera e i nottambuli italiani che non si accontentano delle sofisticate elegie di Enrico Ghezzi ora dovranno sorbirsi un inglese, Piers Morgan, ex direttore di News Of The Word e Mirror, conosciuto oltreoceano per il talent show America’s Got Talent. Uno straniero che molto difficilmente farà meglio di Larry. Che era inimitabile. Sempre ieri notte, in uno sketch con Fred Armisen travestito come il padrone di casa, King ha dimostrato il suo genio minimalista. «Qual è stata la domanda più importante della tua carriera?». E lui, in un raro momento gelido, «“why”, “perché”. A questa domanda l’ospite non può dire sì o no. E deve riflettere per rispondere». Semplice, no?
Il carisma, la professionalità e il suo indimenticabile volto appuntito da nerd hanno fatto il resto. Non a caso, Washington terrà uno smithsoniano spazio per il suo storico set a puntini colorati, Los Angeles gli ha già dedicato una strada – gesti apotropaici permettendo – e sempre ieri, in diretta, il governatore Schwarzenegger ha annunciato l’istituzione in California del Larry King Day, per ogni 16 dicembre di prossima ventura. Sulle note di Best is Yet to Come – “il meglio deve ancora venire” - cantata in diretta da Tony Bennett e circondato dai due figli e dalla moglie Shawn (di nuovo al suo fianco dopo il tentato suicidio per le viscide accuse di liaison di Larry con la sorella di lei), King ha ricamato così il suo sofferto commiato: «Invece di dire arrivederci, che ne dite di “quanto tempo”?». Il re che aveva reso «eccitante persino il Nafta» (copyright Katie Couric) e che aveva intervistato «tutti a parte Dio» (Tom Johnson, ex presidente Cnn dixit) era troppo stanco - e saggio, visti i tempi - per non abdicare.

Wednesday, December 15, 2010

Cuba lancia la sua "strana" Wikipedia

di Antonello Guerrera
È stato un grande wiki-giorno ieri. Cauzione (con appello svedese) per Assange. L'annuncio del Wikileaks europeo (www.Brusselsleaks.com), che promette di svelare i segreti dell’Ue. E, dulcis in fundo, Cuba ha lanciato la sua wikipedia, EcuRed.cu. Un buon tentativo per riscrivere la storia, sogno agognatissimo. Del resto, non c’era momento migliore per lanciare la rivoluzionaria iniziativa. A Cuba meno del 3 per cento della popolazione ha accesso a Internet. Un'oculata costruzione del brand può essere un buon viatico per il futuro. Quindi largo alle prime 20mila voci, sino a ieri ancora a singhiozzo, di questa nuova “voce libera” di Cuba dal motto «la conoscenza con tutti e per tutti». EcuRed.cu è un’enciclopedia semiufficiosa, se così si può definire. Non è tuttora chiaro chi la sostiene, ma il suo approccio al sapere è decisamente “governativo”. Basta guardare le fonti delle varie voci per rendersi conto dell’eccentrica oggettività di Wiki-Cuba: il giornale di partito Granma su tutti; seguono a ruota Cubadebate, siti come Cuba vs Bloqueo o piattaforme esterne, ma sempre di sinistra rosso fuoco, come Voltaire Network, nonché Noam Chomsky - sempre utile alla causa. Il resto è, ovviamente, propaganda infiocchettata da enciclopedia. Nella pagina di Fidel Castro, il Líder máximo viene quasi insignito di una «benedizione divina», si loda il suo impegno per «il socialismo», «l’educazione», «la salute», «lo sport», il suo ritorno post malattia viene definito «glorioso», bla bla. Sobrie, invece, le paginate su Italia e Vaticano, (ancora) non esistono quelle di Berlusconi, Ahmadinejad o lo stesso Obama. Ma l’America meno recente, sempre assetata di Cuba - si legge -, c’è tutta. George Bush senior, ad esempio, è un acerrimo nemico della libertà. Ma è sul figlio “Dabliu” che l’enciclopedia dà il meglio di sé: «Dopo l’attentato alle Torri Gemelle», recita l'intro, «Bush ha deciso di combattere il terrorismo con un terrorismo su scala globale», applicando «tutti i metodi della guerra sporca». Chissà quali sono i comandamenti dei “moderatori” di EcuRed.

Da Il Riformista, 15/12/10

Friday, December 3, 2010

Solgenitsin & Burns - L'ultima “wiki-intervista”


INEDITO. Spunta un colloquio privato del 2008 tra l'ex ambasciatore Usa e il Nobel 4 mesi prima della sua morte.

Tra gli oltre 250mila file di Wikileaks, il fuggitivo Julian Assange potrebbe averci regalato l’ultima conversazione ufficiosa di Aleksandr Solgenitsin. In Occidente, le sue ultime confessioni erano arrivate grazie a Christian Neef e Matthias Schepp dello Spiegel nel 2007. Un’intervista da molti dichiarata “finale”, dove l’autore di Arcipelago Gulag annunciava il suo ritiro dalla letteratura attiva, dichiarava di non aver paura della (imminente) morte, dipingeva croce e delizie della Russia di Putin. Presidente che ha imparato ad amare col tempo, dopo alcune frizioni iniziali. Alle 7 e 07 di ieri, però, è spuntato il cable “confidential” 08Moscow932. Il file porta la data del 4 aprile 2008, la firma dell’allora ambasciatore americano a Mosca William J. Burns (posizione ricoperta fino al 12 maggio 2008, per poi diventare sottosegretario di Stato in patria) e allega anche un altro suo incontro privato con il patriarca ortodosso Kirill.
Non sappiamo la data esatta dell’incontro tra Solgenitsin e Burns. L’unico riferimento temporale è «di recente», quindi a ridosso del 4 aprile. L’ambasciatore dice di essersi recato a casa del premio Nobel nella sua casa fuori Mosca, dove morirà solo quattro mesi dopo, il 3 agosto 2008. Burns descrive Solgenitsin in cattivo stato di salute («braccio sinistro paralizzato, mano contorta»), ma intellettualmente attivo e lucidissimo («sveglio, dalla parlata chiara, sempre al lavoro negli archivi e aggiornato sugli eventi esterni»), seppur spesso ripreso dalla sempre attentissima e accorta moglie Natalia.
Solgenitsin conferma a Burns quanto dichiarato allo Spiegel l’anno prima su Putin. L’ex presidente, e futuro premier, è una benedizione rispetto a Gorbaciov e Ieltsin per riparare i danni di 70 anni di storia sovietica, nonostante problemi mai risolti - come il gap tra ricchi e poveri. E, aggiunge nel colloquio con l’ambasciatore, la gestione dei casi secessionisti. Alla luce della strage di Beslan, il Nobel critica «l’errore» di Putin di scegliere autonomamente i governatori locali e non farli eleggere dal popolo. Altro tema, quello della Cecenia, per il quale Solgenitsin è stato molto criticato - per aver prima invocato l’autonomia della regione e poi la pena di morte per i «terroristi» locali.
Quale governo ideale allora? Lo scrittore ribadisce il sogno di autogoverno delle masse e pone come esempio supremo di politica «le assemblee locali del Vermont (dove si era trasferito dopo l’esilio, ndr)», «l’essenza della democrazia». Ma lo sapeva anche lui che questa era solo utopia. E perciò Burns passa a chiedergli del neopresidente Medvedev. Un «bel giovane» anche se mai incontrato prima, dice Solgenitsin, ma sicuramente pronto a «riparare», anche lui, «i danni sovietici». E qui viene la parte più succosa. Perché Solgenitsin, nel citare i «crimini» dell’Urss contro la sua gente, vi include anche l’Holodomor, il famelico genocidio ucraino del ’32-33 la cui ricorrenza è caduta sabato scorso. Curioso, perché il 2 aprile, e quindi subito prima (o subito dopo) la conversazione con Burns, Solgenitsin, in un suo controverso articolo sul quotidiano Izvestia, ripudierà l’etichetta “genocidio” al massacro, scatenando un putiferio. Incredibile, ma anche lui verrà accusato di nazionalismo oscurantista.
Nella sesta e ultima parte del cable, Solgenitsin, che in passato aveva paragonato la Nato ad Hitler per la guerra dell’ex Jugoslavia, si scaglia contro l’indipendenza del Kosovo («perché i serbi dovrebbero pagare i peccati di Milosevic?»), nonché contro l’avvicinamento dell’Ucraina alla Nato («senza però approfondire la questione», scrive Burns). Insomma, grande madre Russia merita rispetto, sempre. Soprattutto quando Putin aveva offerto tutto il suo supporto all’America dopo la tragedia dell’11 settembre: «Quel suo gesto spontaneo dovrebbe essere pienamente ripagato» dagli Usa, sentenzia Solgenitsin.

di Antonello Guerrera
Il Riformista - 03/12/10

Thursday, December 2, 2010

Era solo un suicidio e non un manifesto


«Rispettare la sua volontà». Basterebbero le quattro sagge parole pronunciate ieri dal Capo dello Stato Giorgio Napolitano alla camera ardente di Mario Monicelli, per abortire questo articolo. E invece siamo costretti a parlare della bagarre che si è ieri consumata tra i seggi di un’altra Camera, quella degli “onorevoli” deputati. Dove si è usurpato il mitologico ricordo di Monicelli per parlare pubblicamente di “dolce morte”. La miccia l’ha accesa Umberto Veronesi al Mattino di ieri: «Con l’eutanasia avrebbe fatto una fine più dignitosa». A ruota sono seguite le dichiarazioni di Rita Bernardini (Radicali) e Paola Binetti (Udc). La prima invocava una riflessione sulla dolce morte di cui il Maestro suicida non avrebbe potuto godere. La seconda ha spiegato l’estremo gesto col fatto che «era stato lasciato solo dai familiari». Si sbagliavano, e non di poco, entrambe.
Monicelli non era stato abbandonato dai suoi cari. Monicelli voleva semplicemente stare da solo: «La solitudine è importante, serve a ragionare, a non stare in superficie», dichiarava. Sebbene in passato si sia mostrato sensibile al tema dell’eutanasia, non voleva certo invocarla pubblicamente con quel salto nel vuoto. Né lo ha lasciato intendere: nessun biglietto, nessun appello precedente, niente. Ma purtroppo di questi tempi si strumentalizza anche la morte, e si può perfino confondere l’eutanasia con il suicidio. La “avanzatissima” Olanda, dove il numero di suicidi è più alto di quello italiano pur avendo l'eutanasia, ce lo conferma. No, se Mario Monicelli ha scelto di saltare, non è stato per lanciare una proposta di legge, per farsi latore di un messaggio o per candidarsi a leggere il prossimo elenco pro-eutanasia in un programma di Fazio. Monicelli si è ucciso perché stanco della vita. Punto e basta. Senza chiedere il placet a nessuno, senza iscriversi a nessun partito, senza bisogno di una legge. Il padre della commedia all’italiana non merita davvero di diventare la mascotte di questa farsa all'italiana.

Antonello Guerrera
Il Riformista, 02/12/10

Saturday, November 27, 2010

«Le mie critiche all'islam? Sono sempre della stessa idea»


IAN MCEWAN. A Roma la prima italiana del suo esordio operistico “For You” con Michael Berkeley e l'incontro con gli studenti della Sapienza in subbuglio: «Supporto la vostra lotta, ma la cultura non deve dipendere dalla politica. L'era della Thatcher insegna».


di Antonello Guerrera - Il Riformista 27/11/10

Roma. Sarà colpa del freddo e dell'ora mangereccia, ma la città universitaria della Sapienza di Roma non sembra in bollente subbuglio. La sempre vivace facoltà di Lettere e Filosofia si mostra poco appariscente nella protesta contro il ddl Gelmini. Qualche ritaglio di giornale a tema affisso alla vetrata dell’ingresso e poco altro. Nell’ampia e quasi colma Aula I, invece, l'atmosfera è più calda, il popolo c’è, si vede e si sente. Studenti imbottiti e matricole pseudorasta, professori di passaggio e curiosi di ogni età. Alle 12 e 36, sei minuti dopo la tabella di marcia, arriva il Godot agognato. Si materializza Ian McEwan. Scrosciano gli applausi.
Completo scuro, camicia chiara, pelle lucida, i soliti gioviali, liscissimi capelli bianchi. McEwan è alla Sapienza per presentare la prima italiana di For You, l'esordio operistico in combutta con il compositore britannico Michael Berkeley, classe 1948. Una dark comedy dal finale sorprendente che non tralascia temi cari a McEwan come il potere e il sesso e che si inscrive nella tradizione novecentesca di Literaturoper, Maeterlinck, Auden e Cocteau. La presentano così i padroni di casa Isabella Imperiali e Franco Piperno, sul palco con McEwan e Berkeley. For You è un'opera da camera in due atti di cui l’autore dell’ultimo Solar (Einaudi) ha scritto il libretto: «Berkeley mi ha tormentato 25 anni per questa collaborazione. L’ho composta sul modello classico 10x10 (ossia dieci minuti per ognuna delle dieci scene, ndr) ma non mi sarei fidato di nessun altro al di fuori di Michael. Quando scrivo romanzi mi sento un dio perché scrivo quello che mi pare, come librettista mi sento un angelo perché l’opera è di proprietà del compositore».
Giusto il tempo di ricordare che For You, la cui premiere si è svolta giovedì al Teatro Olimpico di Roma, replicherà stasera, sempre sullo stesso palco, alle ore 17,30, ed ecco che Piperno ammette di essersi dimenticato l’accorato appello di una studentessa dell’università, che inciterà i suoi colleghi a non mollare nella lotta contro «la classe dirigente di 60enni/70enni». Terminato il minisermone, McEwan si associa allo scoramento generale e dichiara di comprendere la resistenza degli universitari italiani di fronte all’austerity «autodistruttiva»: «Checché se ne dica la cultura è fondamentale per la vita intellettuale, ma anche economica di un Paese».
Iniziano a scoppiettare le domande degli astanti a McEwan, mentre il povero Berkeley viene ignorato, all’ombra di una colonna della letteratura mondiale troppo alta per lui. McEwan è compiaciuto delle domande semplici ma genuine a cui viene sottoposto. Una studentessa gli chiede se i suoi personaggi negativi sono un tentativo di esorcizzare il futuro, nell'apotropaica speranza di non diventare mai come loro. Vedi il professor Beard di Solar che, invece di concentrarsi sulla ricerca, pensa solo ai rinfreschi della lobby ambientalista. «Spero di no, perché Beard ha avuto cinque mogli e io preferirei non andare oltre due matrimoni. Ma da Omero in poi, la letteratura mondiale ha sempre preferito i cattivi. Semplicemente perché sono più interessanti dei buoni. Penso che l’unica eccezione di successo in questo senso sia stato Tolstoj». Allora McEwan si chiede da solo: possiamo perdonare l’amoralità nella vita di un artista? «Questo è un credo che ha avuto molta fortuna nell’era romantica, ma io non sono d’accordo. Come ho fatto intendere in Amsterdam, a un artista non deve essere concesso di comportarsi male. Forse nel corso di un secolo possiamo fare uno strappo alla regola: Beethoven sì, Dylan Thomas no. Ma l’arte migliore è proprio quella che viene espressa nell’ambito delle regole e dei principi della società».
Un’altra studentessa chiede a McEwan il suo rapporto con la musica e dei temi ricorrenti tra For You e Chesil Beach: «Bah», rimugina McEwan, «sono stato sempre un grande appassionato di musica, da ragazzo suonavo il flauto ma poi ho lasciato perdere. Ascoltavo rock 'n' roll, jazz, ma la mia vera passione è senza dubbio la classica. E Bach il mio primo grande amore». Immancabile il capitolo sesso, altro elemento che gli ha fatto guadagnare il famoso soprannome “Ian Macabre”. Basti pensare all'ultima, cruenta disavventura genitale che accenna nella prima parte di Solar: «Sarà stata colpa degli insegnamenti di Freud, ma davvero negli anni Sessanta pensavo che tutti i rapporti personali, nel futuro, si sarebbero basati sul sesso. E invece, mi sbagliavo». Si vede che le apparenze ingannano i comuni lettori, in particolar modo quelli italiani.
Appurato che gnocca & Co. tirano meno di quanto si pensi, offriamo a Ian McEwan due domande al prezzo di una. First: come giudica il futuro della cultura nella sua Inghilterra, martoriata dai tagli del duo Cameron-Osborne? Second: ha cambiato giudizio sull’islam dopo che nel 2008 lanciò a mezzo Corriere della Sera dure critiche ai suoi precetti? Rimpalla McEwan: «Non sono tempi facili per la cultura britannica oggi, Blair e Brown avevano addirittura raddoppiato i fondi alle arti. Ma è anche vero che c’è gente che soffre tagli più drammatici di noi. Tra l’altro, credo che la creatività sia stimolata nei periodi di crisi e la rabbia generi arte. Non a caso, in un altro periodo di tagli radicali, quello della Thatcher, è esploso il teatro inglese. La cultura deve imparare a non dipendere totalmente dai politici». Cala un mite gelo in sala, visti i tempi che corrono. «E poi», insiste lo scrittore, «una cosa sono i tagli a un genere complicato come l’Opera, altro caso è quello della letteratura: a uno scrittore serve carta, penna, mica altro». La platea appare interdetta. Anche noi, perché McEwan ha scapolato sulla domanda religiosa. Gli chiediamo se il suo dribbling in stile blairiano (direbbe Rankin) sta per un fantasioso no comment. Stizzito, risponde: «Non sono un uomo di fede, ma non ho cambiato posizione su questo argomento. Che sia l’islam o il cristianesimo, per me le religioni sono tutte uguali».

For You
di M. Berkeley e I. McEwan
Teatro Olimpico, Roma
Oggi, ore 17,30

Sunday, November 21, 2010

James Blunt, il milite noto che la musica snob odia



YOU'RE BEAUTIFUL. Cossiga lo amava, la stampa inglese lo detesta. Storia di una star ex soldato che "evitò la terza guerra mondiale" e che canterà a Natale in Afghanistan contro i talebani.


di Antonello Guerrera

Era l’agosto 2009, quando il presidente emerito Francesco Cossiga divenne “Deejay K” nella fortunata trasmissione di RadioDue Un giorno da pecora condotta da Giorgio Lauro e Claudio Sabelli Fioretti. Pioniere della radio online e di iTunes, il picconatore lanciò i suoi cantanti preferiti: Laura Pausini, Michael Bublè e il cantante inglese James Blunt: «Mi piace molto», confermò poi al Giornale. Come «capitano dell’esercito inglese fu tra i primi a entrare a Pristina ai tempi della guerra in Kosovo. Lì scrisse il suo bellissimo brano Carry Me Home, che vuol dire portami a casa». E che Cossiga dedicò a Pier Ferdinando Casini: «Pensavo al ritorno nella Dc», confermò. «Lo sa che Blunt fu anche uno degli ufficiali che trasportò il feretro della Regina Madre? Poi forse ha capito che facendo il cantante avrebbe guadagnato più denari. E in effetti You’re beautiful, che ha composto per la sua prima fidanzata, è una canzone molto commovente».

Chissà come avrebbe reagito “Kossiga” alla notizia che proprio il suo James Blunt (alle anagrafe Blount, cognome «troppo ostico» per le masse) avrebbe sventato la terza guerra mondiale, stando al suo racconto a Bbc Radio 5 di lunedì scorso. È il 1999. Blunt non è ancora una popstar mondiale, bensì ufficiale di cavalleria britannico nel contingente Nato in Kosovo. Duecento russi hanno occupato, prima delle forze alleate, il campo d’aviazione di Pristina. Al che, il generale americano e poi aspirante presidente democrat Wesley Clark ordina di aprire il fuoco al 25enne Blunt, a capo di 30mila soldati. James dice di no e così evita una carneficina dalle conseguenze nefaste. I russi poi desisteranno. Blunt rischia la corte marziale, ma per sua fortuna il generale britannico Mike Jackson lo difende.

Dopo sei anni di mimetica (in cambio di studi gratis in ingegneria aerospaziale alla Bristol University), James Blunt appende le armi al chiodo il primo ottobre 2002 per dedicarsi completamente alla musica. Una scelta che fa storcere il naso alla famiglia, soprattutto al padre Charles, anch’egli militare in carriera, poco avvezzo ai pentagrammi («so suonare solo le campane») e penultimo anello di una interminabile catena familiare devota all’esercito britannico: i Blount vantano un militare, ininterrottamente, da mille incredibili anni, da quando i loro antenati del X secolo arrivarono in Inghilterra dall’attuale Danimarca.

Ma James non ha rimorsi. Infatuato dalla chitarra sin dal liceo a Harrow, Blunt, oggi 36enne, ha continuato a suonare soprattutto nell’esercito. Dove compone la toccante No Bravery, successiva hit mondiale, sulla tragedia dell’ex Jugoslavia. La canzone sarà l’ultima lacrima dell’uragano d’esordio Back to Bedlam (2004), che sarà il disco più venduto in Uk degli anni Zero (12 milioni di copie, più del leggendario Back To Black di Amy Winehouse) grazie a hit memorabili per molti, insopportabili per pochi, come High e You’re beautiful. Che a un certo punto, forse per eccessiva melensaggine, diventa in un sondaggio inglese del 2005 la canzone più odiata della storia della musica.

Plebiscito sintomatico di un atteggiamento spesso pregiudizievole nei confronti di Blunt da parte di una buona fetta di Gran Bretagna, la cui crema portante è la stampa musicale. Quando uscì Back to Bedlam, nessuna testata di grido pensò di recensirlo. Il secondo album All The Lost Souls (2007) è stato subito etichettato come la scia di una meteora già all’orizzonte. L’ultimo Some Kind Of Trouble (appena uscito in Italia per Warner), seppur sia un disco discreto con buoni picchi melensi-melodici (da Best Laid Plans a No Tears) e abbia subito raggiunto il secondo posto della classifica europea dietro il Greatest Hits dei Bon Jovi, ha dovuto aspettare solo qualche ora per essere stroncato dai critici oltremanica. Uno per tutti, Simon Price de l’Independent: «La cosa migliore che possiamo sperare è che questa volta Blunt possa guadagnare abbastanza per comprarsi un’intera isola nel Pacifico (allusione al fatto che Blunt dal 2009 vive a Ibiza, ndr), così non ci scoccerà più».

James Blunt, ex milite noto, faccia da angelo e fucile in braccio, fan di Elton John e ugola in bilico tra Cat Stevens e un eunuco, vita fatta di una chitarra, tre accordi e un ritornello, è antipatico alla stampa per: la vaga riservatezza sulle sue relazioni amorose; il suo accento e fare “posh”, da fighetto, che secondo alcuni non avrebbe mai raggiunto la middle class inglese; e, ovviamente, il suo passato da soldato. Una parentesi bellica, secondo i molti osservatori imbevuti di Jefferson Airplane, fiori nei cannoni e l’oppio de “il mio nome è mai più”, troppo scabrosa per una star della musica. Va peggio, se Blunt si espone su temi tipo: «Ha fatto bene il principino Harry a entrare nell’esercito». Oppure, «il governo non fa abbastanza per le nostre truppe».

Eppure James Blunt non fa apologia della guerra. Per la precisione, la esecra. Epperò, a differenza di altre star della musica, non riesce a voltare lo sguardo di fronte alla tragedia dei suoi ex compagni soldati al fronte, quelli che lo chiamavano “weener” perché era piccolino di stazza e che si stupivano per la freddezza, la briosità e la diplomazia che mostrava nelle operazioni di peace-keeping. Blunt non ha mai approvato le guerre di Tony Blair, né ne canta i valori in quelle poche occasioni che i suoi dischi non parlano di amorucci sfilacciati, affezioni werteriane e angeli sopra Albione. Ma un mese fa è andato a trovare i militari britannici in Afghanistan. Dove tornerà a Natale per esibirsi un concerto storico: «Le voglio cantare ai talebani», ha annunciato.

«James Blunt è un soldato, un gentiluomo e una rockstar», ha dichiarato l’attrice di Guerre Stellari e sua vecchia amica Carrie Fisher. Non solo. È stato anche un campione di sci, supporta Medici Senza Frontiere, è un ecologista (mostra ai concerti il trailer di Una scomoda verità, pianta un albero per ogni biglietto venduto dal proprio sito ad hoc e possiede un prototipo di macchina elettrica della Nasa), ha messo persino in vendita la sorella su eBay, facendole così conoscere il suo attuale fidanzato. Ma senza la guerra non sarebbe mai stato quel «di tutto un po’» che lo rende speciale, e bizzarro, di fronte ai colleghi, dei quali non condivide lo star system e la vita sfrenata: «Amo la purezza del lavoro di un soldato, perché hai a che fare con due cose, semplici ma fondamentali», ha dichiarato in una meravigliosa conversazione con Neil McCormick del Telegraph. «Una è la vita, l’altra è la morte. Nell’industria musicale, invece, hai a che fare con il successo e l’immagine. È solo distrazione». Tuttavia, continua, «riesco a ritrovare quella purezza quando sono in tour. Guardo la gente negli occhi. Cerco solo di raggiungere un altro essere umano mentre canto. Tutto il resto sono sciocchezze». Chapeau.


Da Il Riformista, 21/11/10

Thursday, November 11, 2010

Asia Bibi, una "Sakineh" dimenticata

Asia Bibi, 38 anni, cristiana, madre di due figli, è stata condannata a morte martedì in Pakistan per “blasfemia”. Asia è stata ritenuta colpevole di aver oltraggiato, nel 2009, il profeta Maometto e, salvo ripensamenti in appello, sarà la prima donna a subire la pena capitale pachistana per aver offeso l’islam. Una notizia tremenda che purtroppo ha sconvolto meno di altri scabrosi casi come quello dell'iraniana Sakineh e che si incastra in un inquietante trend di terrore perpetrato dagli estremisti islamici pachistani, soprattutto nella regione del Punjab. La minoranza cristiana in Pakistan, circa 2 milioni secondo l’ultimo censimento del 1998, ne soffre le maggiori conseguenze.
Asia Bibi viveva a Ittanwali, villaggio di 1.500 anime nel Punjab dove la sua è una delle tre famiglie di fede cristiana. Il 19 giugno 2009 si trovava al lavoro con altre braccianti quando, all’ennesimo tentativo di quest’ultime di convertirla all’islam, ne è scaturita una furiosa lite. Durante la quale, secondo l’accusa, Asia avrebbe pronunciato le fatali frasi: «Cristo è morto sulla croce, cosa ha fatto per voi Maometto?». E poi: «Il nostro Cristo è il vero profeta, il vostro è fasullo».
Apriti inferno. Prima di essere arrestata e portata nel carcere di Sheikhupura, Asia e i suoi bambini sono stati picchiati dai concittadini. Dalle moschee, intanto, si levava l'umiliazione di dipingerle il volto di nero e scarrozzarla su un asino per il paese. Subito sono partite le petizioni di varie associazioni cristiane in Pakistan, che purtroppo non hanno avuto una risonanza simile a quella di altre tragedie ben più famose. Anche perché le donne, sino a l’altro ieri, erano sempre state risparmiate dal boia. Ma adesso, oltre ad Asia, anche un’altra ragazza, Martha Bibi, è sotto processo per la stessa accusa. Perché la “blasfemia” non è solo un fine da punire, ma anche un mezzo da sfruttare per gli estremisti pachistani affinché si eliminino i “nemici”.
Nella crescente ondata anticristiana che attraversa le viscere del Pakistan da decenni, difatti, questo reato-“legge di stato” è la cartina tornasole delle violenze che gli “apostati” musulmani e le minoranze religiose subiscono. L'“arma del delitto” si chiama 295, ovvero l’articolo del codice penale pachistano, introdotto nel 1985 durante l’era ultraislamizzante dell’ex presidente Zia-ul Haq, che punisce la blasfemia contro l’islam e il Profeta con la pena capitale. Proprio da tali accuse, in Pakistan sono esplose, dagli anni Novanta a oggi, le più sanguinose cacce al cristiano, alcune indelebili, come il tentato pogrom dei 30mila musulmani che nel 1997 rasero al suolo case e chiese cristiane di Shantinagar o le orde di fanatici del primo agosto 2009 che misero a ferro e fuoco la comunità cristiana di Gojra, bruciando vivi due uomini, tre donne e due bambini. Tutti episodi occorsi nel rovente Punjab.
Il 2010 non è stato meno violento: un cristiano arso vivo a Rawalpindi nel marzo scorso perché nolente alla conversione dell’islam (e la moglie stuprata dai poliziotti). Un altro, Qamar David, lo scorso febbraio è stato condannato all’ergastolo a Karachi per «espressioni blasfeme» su Maometto e il Corano (mentre il co-imputato musulmano è stato assolto). Stessa atroce sorte per il 26enne Imran Masih, condannato nel gennaio 2010 dopo esser caduto nel tranello di un vicino che gli ha fatto bruciare, a sua insaputa, una copia del Corano. Altri due Masih, Tasawar giovane cristiano di Sargodha e Zahid di Model Town (Lahore), sono dovuti scappare con le famiglie per la stessa accusa. Il 73enne Rehmat Masih, invece, della diocesi di Faisalabad, è ancora in carcere per aver «insultato Maometto». E solo un mese fa è stato trucidato ad Haripur “l’avvocato dei cristiani” Edwin Paul.
Parte di queste azioni contro i cristiani sono orchestrate da gruppi vicini ad al Qaeda come i terroristi del Lashkar-e-Jhangvi. Ma spesso il grilletto scatta anche per ragioni economiche o strumentali, per la “terra” o semplicemente per cacciare i non-musulmani. Un duro allarme di fuga cristiana dal Pakistan l’aveva già lanciato lo scorso agosto l’arcivescovo di Lahore, nonché presidente della Conferenza episcopale pakistana, monsignor Lawrence Saldanha. Ma per tutti i martiri invisibili del Pakistan le autorità internazionali fanno fatica a mobilitarsi, anche perché Islamabad è uno snodo cruciale per la lotta al terrorismo. Neanche il clamoroso suicidio del vescovo cattolico di Faisalabad John Joseph, che si sparò alla testa il 27 aprile del 1998 davanti al tribunale in cui un suo fedele, Ayub Mashi, era stato condannato a morte per aver infranto l’articolo 295, ha sollevato l'indignazione del mondo.

Antonello Guerrera
da Il Riformista, 11/11/10

Friday, October 22, 2010

«Il negazionismo? Squallido Ma non si batte con una legge»



HOWARD JACOBSON. A colloquio con lo scrittore britannico, fresco vincitore del Booker con “The Finkler Question”. «Certa sinistra demonizza Israele. Ma gli ebrei vogliono solo la pace».


Howard Jacobson doveva essere a Roma la settimana scorsa per il Festival della letteratura ebraica. Poi però la seriosa giuria del Booker Prize ha deciso di premiare, a sorpresa, il rigoglioso humour del suo ultimo The Finkler Question e così ha dovuto rinunciare al suo italienische Reise. In un Paese che, ha brevissimamente dichiarato lo stesso Jacobson a caldo al Corriere della Sera, «gli ha portato fortuna. Cargo (l’editore italiano, ndr) è stato il mio talismano: proprio l'Italia è stato il primo Paese straniero che ha comprato i diritti di Kalooki Nights (altro suo romanzo, ndr)».
Poco male, a dicembre arriverà finalmente in Italia. Ma prima, lo scrittore britannico di origine ebraica, nonché editorialista dell’Independent, si è concesso con più calma al Riformista. In Italia è da pochi giorni in libreria il suo ultimo romanzo tradotto Un amore perfetto. Opera che, dopo l’irresistibile e Imbattibile Walzer (tutti targati Cargo), «racconta in maniera formidabile il tormento sessuale» (nobel Harold Pinter dixit) di uno stimato ma lussurioso libraio. Invece, nel più glorioso The Finkler Question (Bloomsbury, 307 pp., £ 18,99, arriverà in Italia nel luglio 2011), i protagonisti sono tre amici: Julian Treslove, ex produttore Bbc, un romantico fallito su cui ruota la narrazione; e poi Sam Finkler e Libor Sevcik, entrambi ebrei e vedovi, ma su posizioni contundenti su cosa significhi essere ebrei oggi alla luce delle politiche di Israele. Treslove, da insipido “gentile”, aspira a essere ebreo e partecipa allo spigoloso ma frizzante dibattito degli altri due, in una travolgente burrasca di humour a tinte inquiete.
«Difatti, The Finkler Question, nonostante molti dicano sia un romanzo comico, è anche un libro molto triste, una black comedy», puntualizza Jacobson. Eppure, gli scrittori britannici di origine ebraica una volta si nascondevano, «si travestivano da inglesi», disse lo scrittore tempo fa. Oggi non è più così. Una nuova alba, per scomodare Eli Wiesel, sta nascendo. Anthony Julius (l’avvocato del divorzio di Lady Diana) aveva già lanciato nei mesi scorsi il velenoso sassolone del suo Trials Of The Diaspora che indaga l’antisemitismo strisciante nella Gran Bretagna di oggi. «Verissimo, ma non è il solo», sostiene Jacobson. «Sta finalmente emergendo una nuova generazione di scrittori ebraici, vedi Linda Grant e Andrew Miller, meno introversa e più orgogliosa. E The Finkler Question aiuterà sicuramente questa emancipazione». Cosa è cambiato negli ultimi mesi? «Nel 2009 la comunità ebraica, dopo i fatti di Gaza e la demonizzazione di Israele propagata dai media britannici, aveva molta più paura di esprimersi. Ma una cosa è il sacrosanto diritto di critica, un’altra è mistificare le notizie e affibbiare così a Israele un’immagine falsa. Adesso, però, ci siamo stufati e, grazie alla meno rovente situazione in Medio Oriente, stiamo uscendo dal guscio».
Sugli attacchi mediatici anti Israele, Jacobson - nato in una famiglia molto left (il padre era un acceso sindacalista) ma curioso di vedere cosa farà Cameron («anche se alcuni aspetti della sua Big Society sono crudeli») -, ha le idee molto chiare: «Tutte queste mistificazioni vengono propagate dai media britannici liberal e da certe cerchie intellettuali. Qui purtroppo la sinistra, dopo la caduta del Muro e del comunismo, ha sempre avuto il complesso di Israele in quanto nuova valvola di sfogo politico. Ma, checché se ne dica», prosegue Jacobson, «la stragrande maggioranza degli ebrei d’Inghilterra, nonostante gli attacchi, è moderata. Sa che l'antisionismo non corrisponde all'antisemitismo, ma sa anche che dal primo può nascere il secondo».
Jacobson si è definito in passato “sionista liberale” e favorevole a due stati in Medio Oriente. Oggi, a processo di pace innescato dall’amministrazione Obama, non trasuda ottimismo («sappiamo come è andata a finire le scorse volte»). Ma sa che Israele ha una sola via d’uscita: «Tutti gli israeliani vogliono la pace. E credono, anche i più rigorosi, che l’unica soluzione sia rinunciare alla politica degli insediamenti in Cisgiordania, alla quale sono personalmente contrario, e aprire alle concessioni. Anche il premier Netanyahu ne è convinto, ma per andare avanti nel processo di pace dovrà concedere qualcosa all’estrema destra, anche solo simbolicamente». In questi spasmi di dialogo, le pratiche di autoboicottaggio degli stessi ebrei per Jacobson sono assolutamente inutili, «soprattutto quelle degli intellettuali e dei giovani inglesi che non sanno nulla di storia».
Ecco, la storia. Per evitare di farla riscrivere in peggio, il presidente della comunità ebraica romana Riccardo Pacifici con una lettera a Repubblica ha innescato il dibattito politico su una potenziale legge antinegazionista. Che non trova d’accordo l’ebreo Jacobson: «Sarebbe assolutamente controproducente in una società libera e darebbe il fianco a chi si scaglia contro gli “ebrei cospiratori”. I negazionisti bisogna ridicolizzarli, sconfessarli con i fatti, ma non si può negar loro la parola». Così come non si possono negare le barzellette sugli ebrei, recitate anche dal premier Berlusconi: «Guardi, per noi è fondamentale scherzare sulle nostre tragedie, soprattutto quelle più crudeli. Ma le barzellette di Berlusconi non sono così spiritose. Le nostre sono molto meglio. Berlusconi dovrebbe assumermi se vuole davvero far ridere la gente».

Antonello Guerrera
da Il Riformista, 22/10/10

Wednesday, September 15, 2010

Il fotografo-spia di Martin Luther King

E. C. WITHERS. L'autore degli indimenticabili scatti del movimento afro-americano e amico del reverendo era anche un agente dei “nemici” dell'Fbi. Una terribile macchia di una leggenda nera.

di Antonello Guerrera
Ernest “Ernie” C. Withers è un nome che, ai più, dice poco o nulla. Eppure fu uno storico fotografo del movimento antisegregazionista negli Stati Uniti, il dio dell'obiettivo afroamericano che ha consegnato alla storia la lotta guidata dall'“amico” Martin Luther King. Non a caso, le indimenticabili foto di quest’ultimo su un autobus finalmente per bianchi e neri a Montgomery, o in “Marcia contro la paura”, o quelle del suo funerale furono tutte scattate da Withers. Che immortalò King persino nella sua stanza d’albergo. A dimostrazione del ruolo così intimo che aveva all’interno del movimento negli anni 50 e 60.
Del resto, la sua fama era germogliata proprio dopo aver immortalato uno storico processo per il movimento di liberazione afroamericano, quello dell’omicidio di Emmett Till, un quattordicenne di colore che il 27 agosto 1955 si era permesso di fischiare a una ragazza bianca per poi essere dilaniato di botte dal marito e dal fratellastro della donna. Ma Withers, prima di darsi alla fotografia freelance per la causa nera (diventando un riferimento anche per i divi del baseball e del blues, da B.B. King alla Franklin), era stato, per tre anni, anche uno dei primi nove poliziotti neri della storia di Memphis.
Un valoroso pioniere afroamericano, insomma, la cui immagine però è stata violentemente lacerata lunedì in un articolo del Commercial Appeal di Memphis che ha pubblicato un’inchiesta scottante durata due anni: Withers, detto anche “The Original Civil Rights Photographer”, avrebbe smerciato all'Fbi, mentre immortalava la storia antisegregazionista, ogni tipo di informazione sugli attivisti afroamericani. Dalle loro abitudini agli appuntamenti, dai particolari biografici alle fotografie di incontri e marce di protesta sino ai numeri di targa delle loro macchine. Come nei migliori film di spionaggio, il fotografo più amato dai neri del Sud faceva semplicemente il doppio gioco tra il movimento afroamericano e due agenti della polizia americana. Questo per almeno tre anni, dal 1968 al 1970.
Ma perché un nero coinvolto e apprezzato come lui avrebbe gabbato così spietatamente i suoi “fratelli”? Qui la vicenda si complica, perché l'Fbi non ha concesso l’apertura del fascicolo su Withers. Eppure i file di quella cartella potrebbero chiarire molte cose: ovvero per quanto tempo il fotografo ha lavorato per l’Fbi, come venne reclutato dall’intelligence e soprattutto a quanto ammontasse il suo salario. Che poi è il punto centrale del suo tradimento, perché, come ha scritto il Commercial Appeal, Withers aveva otto figli ma forse non il denaro a sufficienza per crescerli. Proprio una sua figlia, Rosalind, ha risposto al quotidiano americano: «È la prima volta che sento una cosa del genere. Queste sono accuse pesantissime».
Paradossalmente, il caso è saltato fuori per un errore marchiano. Negli atti pubblici divulgati dall’Fbi, qualcuno si è dimenticato, più volte, di oscurare Withers e il suo nome in codice “Me 338-R”. L’Fbi ha fatto sapere di non conoscere tuttora le cause di questa grave mancanza, assicurando però che indagherà internamente sulla vicenda. Distrazione o altro? Chissà. Quello che è certo è che oramai la frittata era fatta. Il nome di Withers già campeggiava nei blog come «traditore». E la macchia sulla sua leggenda era così vistosa ieri da occupare le prime online di New York Times e Cbs.

Da Il Riformista
15/09/10

Tuesday, September 7, 2010

Rooney (ri)tradisce Coleen - Scoppia la coppia operaia


di Antonello Guerrera
Mentre la regina mostra al mondo i buchi delle scarpe, Wayne Rooney è piombato in un perfido buco nero che potrebbe rovinargli la picaresca carriera cominciata a pallonate tra i vicoli di Croxteth, il ruvido quartiere operaio di Liverpool. L’attaccante prodigio del Manchester United, secondo quanto rivelato al News Of The World dalla 21enne escort Jennifer Thompson (detta “Jeni la succosa”), avrebbe usufruito dei servizi della meretrice per ben sette volte da giugno a ottobre scorso al modico prezzo di 1200 sterline a incontro. Il tutto mentre l’adorata moglie Coleen, wag sui generis, era incinta del piccolo Kai, nato a novembre in un ospedale pubblico. Una vicenda «disgustosa» per amici e parenti dei due piccioncini. Wayne e Coleen, stando ai tabloid, sarebbero «a pezzi». Ma, nonostante tutto, stasera Rooney contro la Svizzera «giocherà», ha detto il c.t. inglese Capello. Che, stavolta, non ha usato il pugno di ferro come con l'ex capitano Terry.
Sta di fatto, però, che Rooney ha scioccato la Gran Bretagna, tradita, dopo i casi Terry e Cole, ancora una volta da un idolo della Premier League. Passi che il bomber 24enne, almeno fino al weekend scorso, non segnava con il Manchester United da marzo. Passi che ai Mondiali in Sudafrica è stato disastroso (come tutta la squadra). Ma la famiglia è cosa più seria. Anche perché il brutto anatroccolo Wayne aveva già tradito la sua compagna di liceo e poi moglie Coleen McLoughlin, conosciuta a 12 anni e conquistata a 16 dopo un invito al cinema per Austin Powers 2 mentre la aiutava a rimettere a posto la catena della bici. Era il 2004, Coleen era ancora illibata e Rooney, allora sedicenne, se la spassò in un lercio appartamento di Liverpool con la 47enne Patricia Tierney, detta anche la “vecchia sculacciatrice”.
All’epoca, le scuse del fedifrago vennero accettate. E i due, entrambi di estrazione cattolico-proletaria, si scambiarono nel 2008 le fedi in un maestoso matrimonio a Positano (costo 5 milioni di euro). Ma soprattutto, Wayne e Coleen erano la famiglia perfetta per gli sponsor, ovvero i Beckham degli operai. Adesso, però, tutta questa impalcatura è venuta tristemente giù. La Thompson ha raccontato molti dettagli alla stampa: il primo incontro con Rooney trasformatosi in un’orgia, la richiesta del calciatore di “sex toys” (i giocattoli hard), gli incontri davanti ai compagni di squadra (il Mail parla di un Michael Owen «disgustato» dal comportamento di Rooney), poco salutari pacchetti di sigarette pagati 200 sterline, gli «spudorati» messaggini del «timido» Wayne che invitava a casa la “succosa” quando Coleen non c’era, le offese a Cristiano Ronaldo («stronzo segaiolo»), eccetera.
Rooney è «indifendibile», dicono anonimi amici del calciatore ai tabloid. I timori che la storia venisse fuori girovagavano nell’entourage inglese, secondo il Sun, almeno da prima del mondiale. Che il calciatore avrebbe toppato perché timoroso dei rumour sulle sue scappatelle. Sabato scorso, Rooney, saputo che il giorno dopo ci sarebbe stato lo scoop del mese, è finito nel panico. E, dopo qualche minuto, stando al Mail, ha avuto la brillante idea di anticipare i tabloid e mandare un sms a Coleen, mentre lei era dal parrucchiere: ha confessato, aggiungendo in calce: «Ma non è nulla di serio». Esplosa in lacrime, Coleen ha abbandonato la principesca tenuta nello Cheshire da 5 milioni di dollari ed è tornata a casa dai suoi genitori. Mentre il marito Wayne, in tuta e borsone, saliva mestamente su un aereo per Basilea.
E ora che faranno gli sponsor? Rooney, oltre a guadagnare oltre 5 milioni di sterline annuali dallo United, ne accumula altri 25 tra spot e diritti di immagine da brand come Coca-Cola e Nike. Che, almeno per il momento, hanno fatto sapere che non strapperanno i contratti pubblicitari con il calciatore inglese. L'effetto Woods pare scongiurato. Ma con Coleen, questa volta, potrebbe essere definitivamente finita. E Rooney potrebbe soffrirne più di tutti. Proprio la moglie, nel 2007, scriveva nella sua autobiografia Welcome to My World: «Tocchiamo ferro. Ma se un giorno io e Wayne dovessimo lasciarci, sarà molto difficile per lui trovare qualcuno su cui potrà davvero contare».

Da Il Riformista,
08/09/10

Monday, August 16, 2010

Il cantico delle periferie perdute che ha conquistato il mondo

ARCADE FIRE. Sono in sette, hanno esordito con un album ispirato da una serie di incredibili lutti, con l'ultimo “The Suburbs” hanno scalzato Eminem dalla vetta delle classifiche di tutto il mondo. Genesi della band canadese di Win Butler e della moglie Régine che urlano i malesseri di una generazione fallita.

di Antonello Guerrera
La stragrande maggioranza degli italiani non se n’è accorta, ma la musica degli Arcade Fire entra ogni sera, sottilmente, nelle loro case. La sigla del programma di approfondimento politico Otto e mezzo di La7, guarda caso, è un estratto di Rebellion (Lies), canzone di questa giovane e geniale band canadese, che proprio in settimana ha definitivamente scalzato Eminem dalla vetta delle classifiche di vendita di tutto il mondo grazie all’ultimo album The Suburbs. Uno struggente cantico delle “periferie”, inebriante e irresistibile, carbonico e brioso, levigato di intelligente piattume. Senza dubbio tra i migliori dischi dell’anno. Ma è anche vero che The Suburbs è un album di complessità ed emozioni inferiori rispetto ai due precedenti Neon Bible (2007, titolo dai predicatori religiosi estremisti della tv) e soprattutto Funeral del 2004, capolavoro assoluto degli anni Zero. Paradossalmente, però, proprio il loro album peggiore ha elevato nel definitivo olimpo della musica gli Arcade Fire, già definiti da Chris Martin «la migliore band del mondo», e da Bono degli U2 un gruppo «con le palle».
Verissimo, se solo si pensa che gli Arcade Fire sono un’orchestra rock di Montreal composta da ben sette membri fissi, più eventuali aggiunte durante i live. Tutti i componenti della band suonano una moltitudine di strumenti - dalla batteria allo xilofono, dal violoncello all’arpa, dalle chitarre al sintetizzatore - tanto che durante i concerti si scambiano i ruoli senza ritegno. Il frontman fa di nome Win Butler, un mistico werther americano (ma presto trapiantato in Canada) che pare uscito dal remake della Famiglia Addams, cresciuto a iniezioni di solitudine e credo mormonico nella periferia di Houston, prima di trasferirsi definitivamente a Montreal, dove ora il gruppo risiede.
L’altro protagonista degli Arcade Fire è l'unica donna della band Régine Chassagne. Che, ovviamente, oltre a saper cantare, sa anche suonare la batteria, il piano, la fisarmonica, lo xilofono, la ghironda, eccetera. E che, altro particolare non trascurabile, è divenuta la moglie del frontman Butler nel 2003, subito dopo la fondazione del gruppo. Entrambi guidano non solo una famiglia, ma anche una band. Da adepti del Québec, parlano e cantano in inglese e francese, anche se le famiglia di Régine non viene dal Canada, ma dalla disastrata Haiti. Da dove, poco prima che lei nascesse, i genitori sono sfuggiti alla dittatura di Jean-Claude Duvalier. Uomo nero che la Chassagne sciabola proprio nella canzone Haiti, tratta dell’album d’esordio Funeral: «I miei cugini mai nati perseguiteranno per sempre le notti di Duvalier».
Insieme agli altri componenti - tra cui William Butler, fratello di Win, e un percussionista matto shakespeariano che nei concerti rischia la vita arrampicandosi sulle impalcature -, Win e Régine hanno costruito, insieme agli Strokes, la più grande realtà della musica indie del terzo millennio. Dalla loro nascita, gli Arcade Fire, che nel 2006 hanno acquistato una chiesa sconsacrata a Farnham (vicino Montreal) per farne il loro studio di registrazione privato, hanno costretto tante giovani band a emulare il loro unico e irripetibile sound, che spazia dall’elettronica al barocco, da una lucida new wave alla classica più commestibile, dall’anthem rock al pop visionario, dalla critica alla Vonnegut all’elogio di Blake. Ma soprattutto, gli Arcade Fire sono i cantori della società postmoderna, di quelle “generazioni y” che aspettano, da «uomini moderni», qualcosa che non arriverà mai perché bruciate, stritolate tra la morte delle ideologie novecentesche e la violenza, materiale e spirituale, dei giovanissimi, imperscrutabili teenager. Intorno, tra palazzoni, inquietanti centri commerciali e guerre tra band under 15, c’è il vuoto assoluto, una società alla morfina, in attesa di una sfocata apocalisse che si nasconde in ogni piaga sociale - anche se, da ultraobamiani quali sono, un minimo di speranza negli Arcade Fire ci dovrà pur essere.
Il racconto di questa turpe realtà contemporanea è il succoso nocciolo dell’ultimo The Suburbs. Album che, per la materia trattata, è meno coinvolgente dei precedenti, ma più fresco e soprattutto più pop. Forse non rimarrà nella storia della musica, ma è il passepartout ideale per conquistare il pubblico mondiale e veicolare le autentiche opere d’arte precedenti, in primis Funeral: disco di sconvolgente e tragica bellezza - il titolo non a caso viene dalla caterva di lutti familiari che ha colpito la band durante la sua registrazione -, un mondo parallelo di lucida paranoia metropolitana. Perciò ci sono quattro canzoni/capitoli del loro etereo romanzo che si chiamano Neighborhood, ovvero “quartiere”, che viaggiano tra un'adolescenza amorfa e la caccia a un sospiro vitale tra le periferie di Houston.
The Suburbs, album che Butler ha definito figlio dei Depeche Mode e di Jeff Buckley e che parte con l'omonimo pezzo che pare il remake drogato del Ragazzo della via Gluck, è lo sbocco naturale, disilluso e anestetizzato di Funeral, soprattutto se si pensa al gioco di luci tanto caro agli Arcade Fire. Se nel 2004 le ombre e abbagli delle loro canzoni si susseguivano schizofrenici su di un palco tormentato, incapaci di allietare le anime afflitte dei sobborghi delle metropoli (da «i vicini possono ora ballare nelle luci da discoteca della polizia» a «le luci delle strade sono tutte bruciate, une année sans lumiere»), in The Suburbs si passa, come nella bifronte Half Light, da «nella luce a metà saremo liberi» a «ho bisogno delle tenebre, qualcuno distrugga le luci». Il tutto perché la realtà “illuminata” e sporcata dalla crisi economica non può essere più vissuta come prima.
In questo senso, è emblematica la copertina pastello dell’album, una macchina vuota e ferma in modalità drive-in. Ma davanti non c’è né un grande, né un piccolo schermo (la tv è un incubo dichiarato degli Arcade Fire), bensì una casa, «dalle finestre insufficienti per ascoltare le voci umane, si sente solo un'eco» (Half Light I). Eco che si insinua anche nei testi, forgiati da un inglese a tratti anche troppo semplice, dove alcune parti sono copia-incollate tra le diverse canzoni. Eco che risuona straziante in Rococo, dove i bambini moderni cantano canzoni orrende e incomprensibili e dove si percepisce una tortuosa malinconia dell'azzima giovinezza. Eco che si insinua nell’asfalto sempre più vischioso delle periferie, dove il grigio cemento armato domina a differenza del precedente universo di Neon Bible, album registrato sulle rive del fiume Hudson, già luogo di morte in Kerouac e Burroughs (And The Hippos Were Boiled in Their Tanks).
Gli Arcade Fire saranno in Italia per l'unica data live il 2 settembre, nello scenario ribelle dell’Independent Day di Bologna. Luogo forse poco consono alla loro intimità esistenzialista, per un tour che tuttavia è stato inaugurato la notte dello scorso 5 agosto nella bolgia del Madison Square Garden di New York. Un concerto che YouTube ha trasmesso in diretta con la regia dell'ex Monty Python Terry Gilliam. Il battesimo più scintillante per una band che ha già riscritto la storia della musica.

Da Il Riformista, 15/08/10

Sunday, August 8, 2010

Il Pulitzer che l'America non voleva pubblicare



di Antonello Guerrera

«Non me lo sarei aspettato nemmeno tra un milione di anni». Paul Harding, nonostante il fresco (e clamoroso) Pulitzer per la letteratura vinto solo due mesi fa, tiene i piedi ancorati a terra. Del resto, sino all’aprile 2010 era un (quasi) sconosciuto. Tanto che il New York Times, subito dopo l’annuncio dei vincitori del prestigioso premio americano, si è prontamente scusato con i lettori per non aver precedentemente recensito quello che sarebbe diventato l’erede di Faulkner, Roth, Updike, Bellow, Harper Lee, McCarthy, eccetera. Harding, padre di due figli, nato e cresciuto a Wenham, borgo di 4mila anime nel Massachusetts, è l’ex batterista dei Cold Water Flat, band americana dei primi anni Novanta che ha avuto quel (poco) successo che ancora oggi fa girare un paio di video su YouTube. «Oh mio Dio, non mi dica!», implora Harding nel colloquio in esclusiva con Il Riformista. Obiezione respinta. Perché ammirare su Internet un futuro Pulitzer sbarbatello, tra camicie “grunge” e musica di dubbio gusto, è un altro lato nascosto di questo outsider della letteratura americana.

Ma outsider, nonostante la sua modestia, è una parola che sta oramai stretta ad Harding. Il suo romanzo d’esordio Tinkers, vincitore del Pulitzer per la narrativa 2010 e prossimamente pubblicato in Italia da Neri Pozza, è un’opera meravigliosa e terribile, un'onda visionaria, quasi mistica, di un vecchio in punto di morte che, al ritmo di incessanti orologi, ricorda la giovinezza e il suo rapporto con il padre, venditore ambulante (“tinker”, appunto), epilettico e di bassissimo profilo. «Non è una storia autobiografica», sottolinea Harding, «anche se ho preso spunti dai racconti di mio nonno». Il romanzo è stato pubblicato dalla minuscola Bellevue Literary Press, casa editrice no-profit collegata alla facoltà di medicina dell’Università di New York.

Ora Harding è ovviamente passato all’imponente Random House che pubblicherà il seguito Enon nel 2012: «Loro hanno subito creduto in me. Ho firmato il contratto a dicembre, prima di ricevere il premio», precisa lo scrittore. Eppure - il favoloso mondo dell’editoria non finisce mai di stupire - il Pulitzer Tinkers era stato rifiutato da diverse case editrici americane prima di passare alla storia. «Anche molto grandi», dice Harding. Qualche nome? «Preferisco non farne, altrimenti verrei discriminato (ride, ndr). E poi, sono stato fortunato, non porto rancore. Far piacere un libro a editori e lettori è sempre un grande sforzo. Ma la situazione è peggiorata negli ultimi anni. Oggi è difficile far pubblicare qualcosa che non abbia sesso o violenza. È stato frustrante aspettare diversi anni per trovare un editore». Quindi il Pulitzer è stata anche una vendetta nei confronti dell’editoria, diciamolo: «No, no (ride ancora, ndr). È stata sicuramente una soddisfazione, ma oggi è incredibilmente difficile gestire una casa editrice. Ogni anno in America vengono pubblicati migliaia e migliaia di romanzi. Ci sono così tanti scrittori oggigiorno che scegliere, e bene, per le case editrici è estremamente complicato».

Sarà anche per questo mondo letterario “troppo democratico” che il Pulitzer Harding ci confida che la letteratura contemporanea («a parte mostri sacri come Toni Morrison e Cormac McCarthy») non lo ha conquistato affatto: «Le nuove uscite sono troppe, mi ci perdo, non ce la faccio a tenere il passo. Preferisco leggere i maestri del diciannovesimo secolo e primo ventesimo. Il tempo sa filtrare i migliori, lascio il compito a lui». Qualche esempio? «Ho gusti ampissimi ed eclettici. Amo gli americani Emerson, Theorau, Cheever… Ma sono stato profondamente influenzato anche dagli europei Thomas Mann, Proust, Cechov, Tolstoj, Maupassant e soprattutto Italo Calvino». Però la contemporanea Marilynne Robinson, Pulitzer nel 2005 con Gilead (Einaudi) e sua ex maestra letteraria in un vecchio workshop dell’Iowa, l’avrà sicuramente letta. «Ma non è riuscita a tramandarmi il segreto di come si vince un Pulitzer», precisa Harding. «Non c’è una strategia, si tratta solo di fatica e tanta fortuna. Sa come sono venuto a sapere della mia vittoria? La mattina del 12 aprile mi sveglio e controllo su Internet i nomi dei vincitori. “Pulitzer Prize for Fiction: Paul Harding”. Mi son detto: “Oh, my God”. È stato uno shock. Un’ora dopo avevo una lezione all’Università dell'Iowa e i miei studenti hanno portato lo champagne per festeggiare».

Certo è che Harding ingrassa il filotto dei romanzi ambientati nel Nord-Est americano che da qualche anno domina il Pulitzer: ora il New England di Tinkers, prima il Maine di Olive Kitteridge (Elizabeth Strout, 2009) e il New Jersey di La breve favolosa vita di Oscar Wao (Díaz Junot, 2008). Perché questo lembo di terra a stelle e strisce è così ispiratore? «Penso siano coincidenze», riflette Harding. «Però è anche vero che nel Nord-Est, questa terra dalla natura meravigliosa, il pensiero e la letteratura commerciale americana sono cresciuti enormemente. È una zona di “kindred spirits”, ricorda Thoreau o la stessa Emily Dickinson?». Anche in Tinker c’è tanta poesia, nascosta tra le sbarre della prosa. Ma la narrazione rimane incredibilmente scorrevole per la sua densità empatica, aneddotica e figurativa. C’è qualcosa di musicalmente speciale nella scrittura di Harding. Il motivo si rintraccia nella sua impolverata carriera musicale: «Da ex batterista, scrivo a ritmo di musica», ammette lo scrittore. «La classica ha influenzato tanto la mia letteratura. Le frasi dei miei romanzi sono fraseggi musicali, i capoversi variazioni, i capitoli movimenti, i romanzi sinfonie. Nello scrivere cerco sempre la tonalità giusta, in chiavi diverse».

Poi la domanda da un milione di dollari: le piace Obama? Da confesso fan del partito democratico, Harding risponde: «Moltissimo, è bravo, carismatico, nulla a che vedere con l’ancien régime di quello prima di lui (Bush, ndr). Sono così sollevato dall’avere un presidente finalmente intelligente». Eppure tanti intellettuali e artisti sono già rimasti delusi da lui, ultimo Paul Auster: «Certo, magari fosse più progressista di quello che attualmente è. Ma è molto difficile trovare un equilibrio tra sogni e realtà, soprattutto ora che i repubblicani si stanno spostando sempre più a destra». L’America della paura però non sembra cambiata neanche con l’effetto Barack: «Con la crisi c’è molta più fame e aggressività, i Tea Party nascono anche da queste piaghe».

Un altro lato interessante di Paul Harding è il suo viscerale interesse per la religione, riscoperta molto avanti con gli anni: «Sono nato e cresciuto in una famiglia atea», ricorda l’autore, «a differenza dei non credenti di oggi per i quali è una libera scelta non avere una fede. Ma piano piano mi sono accorto che gli intellettuali che adoravo erano quasi tutti pensatori religiosi come Calvino, Barth e via dicendo. Ho capito che la religione non è quell’ammasso di superstizione e nonsense. Ho letto la Bibbia e non è assolutamente violenta o intollerante come si dice. È un’opera di enorme bellezza estetica e narrativa. C’è tanta cultura alla quale non sarei mai arrivato se avessi avuto pregiudizi nei confronti della fede». Oggi vede la religione in pericolo? «Il problema è l’uso ideologico che se ne fa, come con la scienza. Ad esempio negli Stati Uniti da anni vige un pensiero pseudoscientifico al punto che, per molti, ogni tradizione sta diventando un’attività disprezzabile». Ma lei crede nell’evoluzione, Mr. Harding? «Ma certo che sì, è una cosa talmente ovvia. Che mi ha preso, per un fondamentalista?».

Da Il Riformista

Thursday, August 5, 2010

Clegg non si sente a...casa.


Grana per la coalizione di governo britannica. Cameron vuole cambiare il sistema case popolari, ovvero: niente più case a vita, gli inquilini se vantano migliori condizioni economiche rispetto al passato se ne devono andare. Il vice lib-dem di Clegg, Simon Hughes, ha dichiarato che non se ne parla nemmeno perché non è scritto nel programma, né da nessuna altra parte. La coalizione Cameron-Clegg, vedi ad esempio anche l'ultima diatriba sull'aumento dell'Iva, inizia a scricchiolare. Mentre i Lib-Dem sono già allo sbando. Tre giorni fa un sondaggio You Gov (vedi qui) li da al 12 per cento di consenso popolare, la metà della percentuale di voti presa alle elezioni. C'est la vie...

Approfondimento qui.

Immagine: Copyright © Anna Trench 2010

Wednesday, August 4, 2010

Sicilia vuol dire Sellerio, da ex impiegata trasformò la periferia in centro editoriale


di Antonello Guerrera
Dei personali comandamenti di Elvira Giorgianni in Sellerio, scomparsa ieri all’età di 74 anni nella sua Palermo, uno era: «Quando lavoro, penso a persone più colte di me, i lettori. È un mestiere che va fatto con umiltà e spirito di servizio. La mia unica ambizione è di cambiare l’immagine della Sicilia». Non a caso, nella gestazione della Sellerio, fondamentale è stato il primo, umile e reverenziale incontro di Elvira con Leonardo Sciascia, delizia portante dell’editore palermitano ma anche croce quando lo stesso scrittore di Racalmuto passa all'ultimo ad Adelphi e i suoi eredi fanno causa a Sellerio nel 2003 per una diatriba di diritti: «Fu mio marito a portarlo a casa nostra», ricordava Elvira a Repubblica molti anni fa. Un luogo, «casa loro», che Sciascia definiva «una farmacia di paese, un posto in cui ci si parla», ovviamente a bassa voce, come si addiceva ai buoni salotti siciliani. «Provavo una certa soggezione per un uomo della sua levatura intellettuale», continuava la Sellerio. «Ricordo che per colpirlo gli dissi che stavo leggendo il Dottor Zivago. Mi guardò, non disse nulla. Ma da quel momento cominciò a darmi consigli preziosi».
In realtà, Elvira Sellerio era anche una donna risolutissima, «umorale e di brutto carattere» (come si autodefiniva), con un brutto rapporto con gli uomini – tanto che la sua casa editrice ha sempre avuto una vastissima maggioranza di impiegati donne. Forse una personale reprimenda per quel lungo sodalizio sentimentale con il più maturo Enzo Sellerio, laceratosi negli anni Settanta. Dopo aver abbandonato una sicura carriera impiegatizia all’ente per la riforma agraria in Sicilia Eras, ecco la scommessa della casa editrice nel 1969, fondata sui 12 milioni di liquidazione ottenuti dal vecchio lavoro. Un ultimo disperato tentativo anche per non staccare la spina a un rapporto vissuto da Enzo in maniera sempre più stanca. Tutto inutile, perché il matrimonio si scinde definitivamente nel 1979 e così anche l’azienda: Enzo cura la sezione dei libri illustrati, mentre la Giorgianni si occupa di narrativa e saggistica.
Ma Elvira Sellerio era una donna forte. E così, nonostante tante difficoltà (ultime il buco finanziario alla fine degli anni Novanta colmato dal boom di Montalbano) ha dato alla luce un autentico miracolo editoriale, superando la “periferia” editoriale degli inizi. Ma Elvira aveva capito che la periferia poteva essere centro, che la letteratura siciliana aveva tanto da dare al resto d’Italia. E così, mentre il Paese si ingorga sempre di più nelle ideologie, Sellerio punta sulla «cultura amena» (come l’avrebbe definita Sciascia) leggera, elegante, ma non vacua. In questo credo si incastra la storica collana “blu Sellerio” della Memoria, “formato tabloid”, segnata da quella storica “S”, che ancora oggi rimane uno storico publishing symbol dopo il primo Il procuratore di Giudea di Anatole France.
Tuttavia, nonostante le premesse “dandy”, la svolta della Sellerio arriverà con un titolo più che politico, ovvero la pubblicazione nel 1978 de L’affaire Moro di Sciascia. L’investitura finale sarà con l’ex sconosciuto professor Bufalino e la sua Diceria dell'untore, esempio magno della filosofia editoriale di Elvira, che leggeva uno a uno i manoscritti che arrivavano, come facevano gli editori veri.
Poi sono arrivati i Tabucchi, gli Adorno, i Carofiglio, la lotta per Adriano Sofri e soprattutto il giallo all’italiana di Lucarelli e Camilleri che hanno riportato in auge un genere che prima si vendeva solo in edicola. Non sono mancati i momenti neri, come le polemiche con l’ex sindaco di Palermo Leoluca Orlando sull’utilizzo di fondi pubblici. Tutto superato, sigaretta dopo sigaretta, dalla Sellerio, che tra il ’92 e il ’93 ha ricoperto anche il ruolo di consigliere di amministrazione Rai. Un’esperienza che le ha lasciato un'eredità per l'editoria tutta: «Il potere enorme di un certo tipo di comunicazione, ma anche la superiorità del libro come strumento di diffusione di idee».

Da Il Riformista, 04/08/10

Monday, August 2, 2010

Perché Fox News va in prima fila alla Casa Bianca


Interessante, l'89enne Helen Thomas dell'Ap va in pensione (o meglio, viene convinta alla pensione) dopo alcuni giudizi sugli ebrei un po'...ehm, come dire...pepati, tipo "Gli ebrei se ne devono andare dalla Palestina e tornare in Germania e Polonia". E chi invita Obama al suo storico posto in prima fila, di fronte al Presidente, alla sala conferenze stampa della Casa Bianca? Nientemeno che la tv di destra Fox News (vedi qui il lancio Afp) che ha tentato di farlo a pezzi durante la campagna elettorale 2008. Il tutto a scapito di un altro supernetwork come Bloomberg.
Ufficialmente il motivo sta tutto nell'audience sempre più corposa che il network preferito dai repubblicani guadagna a scapito della Cnn. In realtà, forse la verità sta nel mezzo. E cioè: Fox News, lo sappiamo, è di Murdoch. Proprio il magnate australiano qualche giorno fa (vedi qui un commento a proposito di Maurizio Molinari de La Stampa) ha chiesto un lauto compenso alla Casa Bianca (si parla di 600mila dollari annui) per far comparire gli articoli del Wall Street Journal (altra testata di Murdoch) nella rassegna stampa quotidiana della Casa Bianca. Non sarà che Obama abbia tentato di addolcire Rupert con questa mossa, dopo le sue assurde pretese sul copyright dei pezzi del Wsj?

Il «demonio» che vogliono morto - C'è del Saviano in Danimarca


KURT WESTERGAARD. A 5 anni dal caso delle vignette danesi, parla l'artista “condannato” dagli estremisti islamici: «La rabbia è la mia unica resistenza».

di Antonello Guerrera
Sono passati quasi cinque anni da quel maledetto 30 settembre 2005, quando il quotidiano danese Jyllands-Posten pubblicò 12 vignette satiriche sul profeta Maometto. Quelle vignette vennero a loro volta riprodotte sui giornali di altri 50 paesi e si scatenò l’inferno: i tumulti, gli scontri e le proteste in tutto il mondo islamico, offeso da quelle «vignette blasfeme», causarono quasi cento morti, nonché l’incendio delle bandiere e delle ambasciate danesi in Libano, Siria e Iran, per non parlare dei boicottaggi contro i prodotti made in Copenaghen. L’allora primo ministro danese Anders Fogh Rasmussen (il nordico «più bello di Cacciari», Silvio Berlusconi dixit), oggi segretario generale della Nato, definì la controversia delle 12 vignette come «la peggiore crisi internazionale capitata alla Danimarca dopo la Seconda Guerra mondiale».
Una di quelle dodici, satiriche vignette ha offeso più di tutte. È l’immagine di Maometto con un turbante-bomba a miccia accesa, pronto a fargli esplodere la testa. L’autore è il 75enne disegnatore danese Kurt Westergaard, del quale gli estremisti islamici di tutto il mondo, come per Salman Rushdie, Ayaan Hirsi Ali e via dicendo, hanno chiesto la testa. Westergaard, assunto due decenni fa allo Jyllands-Posten con il semplice comandamento «fai quello che vuoi, ma non toccare Dio, Reagan o il porno», era un uomo libero prima di quella piccolissima vignetta di cinque anni fa. Oggi, per quelli che esecrano la libertà d’espressione e di satira, è un demonio apostata e blasfemo che deve essere punito con la morte.
In merito, dice la sua anche Google. Basta andare sulla versione inglese del motore di ricerca più famoso del mondo (www.google.co.uk, cliccando poi su “English” in basso) e cominciare a digitare “Kurt Westergaard”. Arrivati a “Kurt Wes”, Google comincerà a dare i suoi usuali suggerimenti. Che saranno incredibilmente macabri e inquietanti. Nell’ordine “Kurt Westergaard dead (ossia, morto)”, “Kurt Westergaard died (morì)”. E poi “died fire” (morì fuoco), “dead fire” (morto fuoco), “dead in fire” (morto nel fuoco), “death” (morte), addirittura “burnt” (bruciato). Considerando che Google mostra i suggerimenti in base alle richieste più numerose degli utenti, è facile pensare come le persone che bramano di vedere Westergaard in una tomba siano molte di più di quanto si possa immaginare.
Dopo che nel 2008 le forze dell’ordine di Copenhagen hanno scoperto i piani di due terroristi tunisini e uno marocchino (ma tutti con cittadinanza danese) per ucciderlo, Kurt Westergaard vive da quasi tre anni sotto costante controllo della polizia, in un appartamento bunker ad Aarhus, la città più grande della Danimarca dopo la capitale Copenaghen. Una città che sotto la sua scorza placida e bonaria nasconde viscere di morte. Solo il 2 gennaio scorso, un musulmano somalo gli è entrato in casa con un’accetta per compiere la sua fatwa, la condanna a morte islamica, mentre urlava: «La vendetta è arrivata! Sangue!». Fortunatamente Westergaard è riuscito ad azionare il pulsante di emergenza, chiamare le forze dell’ordine e rifugiarsi nella stanza antipanico. Da allora, il vignettista vive sotto lo strettissimo controllo dei suoi angeli custodi, gli agenti del Politiets Efterretningstjeneste, o Pet, o più semplicemente l’intelligence danese.
«Sono gentiluomini che mi seguono dappertutto, quando vado a fare la spesa, quando mangio, quando vado in bagno», dice Westergaard al Riformista, che lo ha raggiunto telefonicamente nel suo bunker di Aarhus. «Oramai mi sono rassegnato. Sarà questa la mia vita sino alla fine. Per fortuna non sono nudista, se no sai che pena per gli agenti starmi dietro?», scherza. Westergaard, dalla voce stanca e provata, ha annunciato il ritiro dalla professione lo scorso giugno. Poco prima del suo 75esimo compleanno («festeggiato cenando con moglie, figli, nipotini e le guardie, ovviamente») e poco dopo esser stato messo in congedo, più o meno forzato, dallo stesso Jyllands-Posten, quando si è venuto a sapere che anche in America stavano progettando di giustiziare Westergaard.
Neanche la pensione lo ha messo al riparo dagli estremisti islamici: «Ricevo continuamente minacce di morte, soprattutto tramite il giornale per il quale ho lavorato sino a poco tempo fa», dice Westergaard. Cosa fa adesso? «Disegno, dipingo quando mi va, ma soprattutto per me stesso. Forse è questa la cosa più importante adesso». Gli chiediamo, allora, se ha altri mezzi per esorcizzare la morte. Uno è la rabbia. «Ne sento tanta dentro di me», ci confessa. Ma precisa: «Non la rabbia violenta, quella appartiene a qualcun altro, io non sono xenofobo, né razzista. Intendo la rabbia positiva, quella che ti fa capire cosa è giusto e cosa è sbagliato. E che è un’ottima difesa quando sei sotto minaccia». Gli chiediamo se conosce Saviano, che vive una situazione molto simile alla sua. Risponde candidamente di no, ma dice di sentirsi spesso con Lars Vilks, altro disegnatore, anch'egli nordico (svedese) e anch'egli finito nell’occhio del ciclone degli estremisti per aver paragonato Maometto a un cane.
In passato, Westergaard ha dichiarato che i musulmani moderati non avrebbero fatto abbastanza per contrapporsi ai più scalmanati. Oggi, rimane più o meno della stessa idea. «Però personalmente non ho problemi con i musulmani danesi. Anche se so che molti di loro mi odiano. Sono fiero del nostro welfare state. Agli immigrati in Danimarca abbiamo dato tutto, soldi, case, libera istruzione per i figli, libertà di culto, le migliori prospettive di vita. In cambio chiediamo solo che vengano rispettati i nostri principi democratici». Ecco, li rispettano? «Da un punto di vista materialistico ci rispettano», precisa. «Ma da quello spirituale odiano la nostra cultura». Non sarà morto il sogno multiculturale dell’Occidente? «Non credo», risponde Westergaard. «Per fortuna nella nostra società sta guadagnando sempre più terreno il materialismo, la secolarizzazione. Ma se, per esempio, vai nelle più arretrate campagne danesi, dove ci sono tanti cristiani fondamentalisti, respiri l’odio nell’aria».
Se Saviano si è pentito di Gomorra, Westergaard non rimpiange nulla di quello che ha disegnato: «Era in gioco la libertà d’espressione. Le vignette volevano solo mettere in discussione un aspetto dell’islam. Fosse successo niente, sarebbe comunque accaduta una situazione simile in futuro. Mi dispiace per i morti nelle proteste, ma non è colpa mia. Sono gli estremisti che hanno giocato sulla frustrazione della popolazione». Qualcuno però, tra cui anche qualche collega, lo ha incolpato di irresponsabilità: «Si sbagliano di grosso. Certi intellettuali, quelli della mia classe, sono spaventati dalle minacce e non si rendono conto che si stanno autocensurando, che stanno rinnegando il loro stesso lavoro». Un complesso di inferiorità, questo, anche di una parte della sinistra? «Senza dubbio, la sinistra vuole sempre proteggere i più deboli, le minoranze. Ma non capiscono che gli estremisti islamici, pur essendo una minoranza, sono una minoranza molto forte, potente e sicura di sé per via della religione. A volte la sinistra è cieca di fronte a simili fenomeni». Così come, secondo il vignettista, i politici sono ciechi di fronte alla guerra in Afghanistan: «È stata inutile, un gravissimo errore. L’Occidente è lì da anni, ma oramai è chiaro che la popolazione locale non vuole accettare i nostri valori, non li comprendono, non hanno alcuna voglia di convertirsi ai diritti umani».
Westergaard si è congedato il primo luglio dai suoi lettori con un'immagine a tutta pagina sul Jyllands Posten: ritrae Don Chisciotte a cavallo, armato di carta e penna. Dietro non Sancho Panza, ma un asino che porta un'incudine con scritto «libertà di espressione» e sopra una bomba che sta per esplodere. Sullo sfondo la mezzaluna. Metafora di un'Europa spesso minacciata, censurata, travolta dalle sue stesse debolezze. Non a caso, spesso Westergaard cita due pungenti esempi storici. Uno è quello del vignettista connazionale Hans Bendix, che faceva satira sui nazisti e che fu messo a tacere dall’allora governo danese per non provocare la Germania. L’altro quello di Pablo Picasso che incontra un ufficiale tedesco nel sud della Francia. Quando questi capisce con chi sta parlando, gli chiede: «Ah, dunque sei tu ad aver realizzato la Guernica?». La risposta di Picasso: «Non sono stato io, ma tu».

Da Il Riformista, 01/08/10

Saturday, July 24, 2010

"Che coalizione gaia" (e poco credibile)!!!


Il Financial Times riporta come il deputato "Tory" David Davis (colui che David Cameron sconfisse per guidare il partito conservatore britannico nel 2005) abbia riportato in un ristorante alcuni commenti del ricchissimo vicepresidente del partito Lord Ashcroft sull'alleanza Lib-Con, tra i quali: "Una Brokeback Coalition". Ovvio che c'è un chiaro riferimento all'amore omosessuale del fortunato film, come riportano le agenzie di stampa italiane. Ma le agenzie stesse non sanno che "brokeback" in inglese significa anche "impossibile", "non corrisposto". Quindi una coalizione senza futuro, se proprio ci si vuole attenere ai fatti politici.
Davis ha poi smentito ma una cosa è certa. Entrambi, lui e Ashcroft, sono stati critici nei confronti dell'alleanza con i liberali. Entrambi non credono nella Big Society lanciata dal neo premier ("una maschera alla Blair", Davis dixit, senza contare i bastoni tra le ruote già lanciati dal Guardian qui). Entrambi, per arrivare al punto, non amano il promettente David Cameron. Che ora spera solo nella fedeltà (e nelle poche pretese) dell'amante-gaffeur Clegg...

Link utili qui, qui e qui.


David Miliband si compra le "primarie" Labour?


La Lobby blairiana sembra colpire ancora...

Qui dal Guardian.

Wednesday, July 21, 2010

Non sei ebreo? Sei uno stupratore!


Gerusalemme. Incredibile sentenza. Un arabo di trent'anni, tale Sabbar Kashur, è stato condannato a 18 mesi di carcere per "stupro" per aver mentito sulla sua identità etnica a una ragazza ebrea. I due hanno avuto un rapporto sessuale consensuale, ma la donna, scoperte le origini dell'amante, ha sporto denuncia per violenza carnale. La sua condanna, per gli avvocati, rappresenta un precedente pericoloso. Per alcuni, la sentenza è razzista. Qui l'Apcom. E qui un bell'articolo del Telegraph, con vari precedenti di identità nascosta prima del sesso.