Londonderry

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Tuesday, September 29, 2009

La faccia nera di un bianco chiamato Griffin


Civil rights. Sul finire degli anni 50 tra le marce di Martin Luther King e l'autobus di Rosa Parks, un reporter wasp del Texas decide di cambiare pelle e partire per il Sud razzista, alla scoperta di un'America ignota e sinistra. Ne venne fuori un libro, mai ripubblicato in Italia. Una lunga odissea di esclusioni e solitudine. Mansfield, Texas, autunno 1959. Sono passati quattro anni dalla rivolta di Rosa Parks, che su un autobus di linea di Montgomery (Alabama) si è rifiutata di cedere il posto ad un bianco. E solo due anni prima il presidente americano Dwight D. Eisenhower ha firmato il Civil Rights Act per il diritto di voto dei neri - poi però severamente amputato dall'ostruzione dei democratici. Il movimento afroamericano per i diritti civili sta muovendo i primi, titanici passi, verso la liberazione dalla segregazione. Martin Luther King è già diventato figura di spicco. Ma la lotta è appena cominciata. L'America è ancora un paese razzista, soprattutto nel profondo, ariano Sud. Ma c'è un uomo, un uomo bianco che non ci sta. E sfida i suoi "fratelli". Esattamente cinquant'anni fa John Howard Griffin è stato protagonista di una storia americana che ha dell'incredibile. Oggi, a mezzo secolo di distanza, abbiamo alla Casa Bianca un presidente di colore nato da padre keniota. Abbiamo assistito alla decadenza scheletrica di una popstar peterpaniana che, per estetica, diletto o necessità, ha deciso di sbiancarsi l'epidermide. Abbiamo letto di professori accusati di razzismo, ma che, sulla loro anima, avevano, secca e ripudiata, una "Macchia Umana". L'antesignano Griffin, invece, bianco giornalista texano del settimanale "Sepia", imbrocca un altro senso sino ad allora vietato. Nell'autunno del 1959 decide clamorosamente di diventare nero. Di partire per il profondo Sud razzista per sperimentare sulla sua pelle le angherie che gli afroamericani subiscono quotidianamente dai bianchi. E di sfornarne un libro di crudele, disperata genuinità. Black Like Me, pubblicato negli Stati Uniti nel 1960, diverrà immediatamente un bestseller nazionale - da cui verrà tratto anche l'omonimo film di Carl Lerner con lo straordinario James Whitmore - scatenando l'ira degli americani più invasati. In Italia, invece, Nero come me è giunto oramai più di trent'anni fa grazie a Longanesi, ma poi è sparito da librerie e distributori. Black Like Me è un diario ultratransustanziale, infausto, un volontario collasso nell'Ade più bigotto dell'America. Le prime righe, datate ottobre 1959, recitano: «Una idea mi aveva assillato per anni (…). Se un uomo bianco diventa un negro nel vecchio Sud, quali sforzi dovrà fare per adattarsi all'ambiente? (…) I negri del Sud erano semplicemente arrivati al punto in cui non gli importava più di vivere o di morire». Così Griffin, con moglie e prole all'oscuro di tutto, si rivolge a un dermatologo di New Orleans e stimola la pigmentazione della pelle con raggi Uv e pillole per annerire l'epidermide. Cura che ha l'effetto desiderato. Una costante rasata ad incompatibili capelli ricci, mani e braccia villose, una dose di tintura indelebile al mattino ed il gioco è fatto. Nonostante la sua carta d'identità reciti «caucasico», John Howard Griffin diventa in poche settimane un vero e proprio, arianamente parlando, "nigger", "coon" o "jigaboo" degli anni Cinquanta. Ed si cala nelle fogne della coscienza americana. Da quel momento i bianchi con i quali aveva amichevolmente vissuto diventano nemici spietati, rabbiosi mostri occulti che al chiaror della pelle nera vomitano tutta la loro natura razzista. È inquietante l'ingresso di Griffin nel parallelo universo "negro" di New Orleans che, seppur città più liberale di molte altre della zona, sfoggia spudorata l'anima più fosca. I «negri» (come li chiama ancora la traduzione italiana del 78) hanno i loro luridi quartieri, i loro sporchi cessi, i loro miseri lavori, i loro sedili posteriori sull'autobus. Tutto il resto è off-limits. Nonostante, e questi forse sono i passaggi più angoscianti di tutto il libro, spesso non ci sia un esplicito divieto. Perché man mano che passano i giorni Griffin, nella sua inchiesta, sviluppa inconsciamente un'indole di assiomatica «inferiorità negra». E censura ogni sua (innocente) mossa che possa dar fastidio, seppur impercettibilmente, ai caucasici. Come sedersi ai tavolini della gelateria. Drammatici poi i capitoli del libro sulle difficoltà di un nero persino per andare al bagno. Senza contare i gabinetti inaccessibili per i neri (ossia quasi tutti), è agghiacciante la crudeltà bianca sull'autobus che Griffin prende da New Orleans per Hattiesburg, Mississippi, estremo Sud. In un viaggio di una decina di ore solo ai bianchi è concesso di scendere per fare i propri bisogni alla stazione di servizio. Mentre i neri, incredibilmente, devono rimanere sull'autobus. Griffin annota: «Qui non si respirava più l'aria d'America. Avevo l'impressione di trovarmi in un paese ignoto e sinistro». Alcuni afroamericani, sventrati dal bisogno fisico e dall'umiliazione, propongono di ribellarsi e farla tra i sedili. «Meglio di no. Avrebbero un'altra ragione per darci addosso», dice un passeggero. E questo è un altro leitmotiv di Black Like Me. Ossia l'estenuante resistenza passiva dei neri d'America. Tra i reietti regna una solidarietà paranormale, bisogna bandire violenza e vendette e, soprattutto, sopportare le umiliazioni, le minacce, le mutilazioni fisiche e mentali dei bianchi americani per ottenere, un giorno, la libertà. «Per essere liberi bisogna amarli i bianchi», dice ad un certo punto un vecchio nero nel libro. Strategia che avrà il suo auspicato successo, facendo leva sulle crepe di quei pochissimi ma indispensabili ariani che nel corso della narrazione, pur non esternando mai il loro pensiero, appoggiano dietro le quinte, quasi per etica ed umana inerzia, la lotta dei neri. Certo, i sudisti illuminati sono pochi. Il resto, ossia la grandissima maggioranza, brancola nelle tenebre. Colpa anche, sottolinea sagacemente Griffin, dei giornali del Sud che fomentano ogni giorno un'assurda crociata contro «l'uomo nero». Sconvolge poi l'immaginario collettivo ariano riguardo la vita sessuale dei neri. Un chimerico coacervo di perversione, incestuosa promiscuità, sodomie gratuite che lasciano sconvolto il Griffin di colore. A metà inchiesta, saltato in macchina di vari bianchi dell'Alabama che gli danno un passaggio, John scopre che ai razzisti piacciono le «negre», che le comprano come animali domestici. E viene travolto da domande ignobili sulla «scandalosa vita sessuale negra» e sulle misure degli afroamericani. Tanto che ad un certo punto un giovane ventenne, in preda alla curiosità genitale più sfrenata, gli chiede: «Me lo fa vedere?». Dopo oltre un mese di odissea razziale, John Griffin decide di interrompere la cura e di tornare bianco. Ma la sua vita è segnata: «Fu uno shock, come se dopo aver vagato nelle tenebre i trovassi all'improvviso alla luce del sole». Nonostante la pelle sia tornata candida, ritornano soventi le autoinibizioni in pubblico oramai tatuate sulla sua anima. E i suoi "fratelli" bianchi son diventati fratellastri serpenti. Tanto che negli ultimi giorni farà un po' la spola, ricambiando più volte l'epidermide per «saltare dall'altra parte della barricata». Negli ultimi capitoli di Nero come me, lo scrittore trae le sue conclusioni e le scaglia contro gli americani. Un nero viene schifato negli Usa degli anni Cinquanta non perché geneticamente inferiore, ma perché ghettizzato, senza diritti, protezione, educazione. Così diventa essenzialmente una bestia nei confronti dei bianchi. Ma attenzione. Griffin, nella sua personalissima inchiesta, riconosce anche gli inquietanti germi della «presunta supremazia nera» che sta attecchendo nelle comunità afroamericane. Col rischio di un «olocausto che coinvolgerebbe gli innocenti e gli onesti». L'esperienza estrema di Black Like Me porterà al suo autore successo ma anche disperazione. Dopo la pubblicazione del libro, la comunità bianca riverserà tutto il suo odio contro il suo eretico trans razziale. Molti amici faranno finta di non conoscerlo, i vicini non lo saluteranno più, le minacce di morte da Ku Klux Klan e altri fanatici si faranno sempre più frequenti. Il 2 aprile 1960, racconta Griffin, fu ritrovato a Mansfield «un manichino mezzo bianco e mezzo nero, con il mio nome scritto su uno striscione giallo, che penzolava da un cavo elettrico». Questo ed altri avvertimenti costrinsero lo scrittore ad abbandonare la sua città natale per il Messico prima e poi per Fort Worth. Oltre ai fanatici, a Griffin (che morirà nel 1980) non sono mancati neanche critici più diplomatici come la scrittrice americana Flanney O'Connor. Ma il suo Nero come me si insinuerà irriducibilmente nella cultura americana. Tanto che persino il presidente J.F. Kennedy, nel discorso alla nazione dell'11 giugno 1963, si riferì palesemente al suo "masterpiece": «Chi tra di noi sarebbe contento di cambiare il colore della propria pelle e vivere la loro vita?». E poi Griffin - che ha vinto, tra le altre cose, il Premio Pacem in Terris nel 1963, dedicato alla storica enciclica di Papa Giovanni XXIII e assegnato successivamente ad altri totem della pace come Martin Luther King, Madre Teresa di Calcutta e Lech Walesa - aveva un motivo in più per scrivere un libro del genere. Dopo la Seconda guerra mondiale passata tra le file della Resistenza francese, divenne cieco per un'esplosione, ma si ristabilì miracolosamente dopo una decina d'anni. In quegli anni bui, Griffin ha ricordato: «Non giudicavo le persone dal colore della pelle, ma solo da voci, affezioni e sentimenti. Lì ho capito tante cose che con la vista mi sfuggivano».

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