KURT WESTERGAARD. A 5 anni dal caso delle vignette danesi, parla l'artista “condannato” dagli estremisti islamici: «La rabbia è la mia unica resistenza».di Antonello Guerrera
Sono passati quasi cinque anni da quel maledetto 30 settembre 2005, quando il quotidiano danese Jyllands-Posten pubblicò 12 vignette satiriche sul profeta Maometto. Quelle vignette vennero a loro volta riprodotte sui giornali di altri 50 paesi e si scatenò l’inferno: i tumulti, gli scontri e le proteste in tutto il mondo islamico, offeso da quelle «vignette blasfeme», causarono quasi cento morti, nonché l’incendio delle bandiere e delle ambasciate danesi in Libano, Siria e Iran, per non parlare dei boicottaggi contro i prodotti made in Copenaghen. L’allora primo ministro danese Anders Fogh Rasmussen (il nordico «più bello di Cacciari», Silvio Berlusconi dixit), oggi segretario generale della Nato, definì la controversia delle 12 vignette come «la peggiore crisi internazionale capitata alla Danimarca dopo la Seconda Guerra mondiale».
Una di quelle dodici, satiriche vignette ha offeso più di tutte. È l’immagine di Maometto con un turbante-bomba a miccia accesa, pronto a fargli esplodere la testa. L’autore è il 75enne disegnatore danese Kurt Westergaard, del quale gli estremisti islamici di tutto il mondo, come per Salman Rushdie, Ayaan Hirsi Ali e via dicendo, hanno chiesto la testa. Westergaard, assunto due decenni fa allo Jyllands-Posten con il semplice comandamento «fai quello che vuoi, ma non toccare Dio, Reagan o il porno», era un uomo libero prima di quella piccolissima vignetta di cinque anni fa. Oggi, per quelli che esecrano la libertà d’espressione e di satira, è un demonio apostata e blasfemo che deve essere punito con la morte.
In merito, dice la sua anche Google. Basta andare sulla versione inglese del motore di ricerca più famoso del mondo (
www.google.co.uk, cliccando poi su “English” in basso) e cominciare a digitare “Kurt Westergaard”. Arrivati a “Kurt Wes”, Google comincerà a dare i suoi usuali suggerimenti. Che saranno incredibilmente macabri e inquietanti. Nell’ordine “Kurt Westergaard dead (ossia, morto)”, “Kurt Westergaard died (morì)”. E poi “died fire” (morì fuoco), “dead fire” (morto fuoco), “dead in fire” (morto nel fuoco), “death” (morte), addirittura “burnt” (bruciato). Considerando che Google mostra i suggerimenti in base alle richieste più numerose degli utenti, è facile pensare come le persone che bramano di vedere Westergaard in una tomba siano molte di più di quanto si possa immaginare.
Dopo che nel 2008 le forze dell’ordine di Copenhagen hanno scoperto i piani di due terroristi tunisini e uno marocchino (ma tutti con cittadinanza danese) per ucciderlo, Kurt Westergaard vive da quasi tre anni sotto costante controllo della polizia, in un appartamento bunker ad Aarhus, la città più grande della Danimarca dopo la capitale Copenaghen. Una città che sotto la sua scorza placida e bonaria nasconde viscere di morte. Solo il 2 gennaio scorso, un musulmano somalo gli è entrato in casa con un’accetta per compiere la sua fatwa, la condanna a morte islamica, mentre urlava: «La vendetta è arrivata! Sangue!». Fortunatamente Westergaard è riuscito ad azionare il pulsante di emergenza, chiamare le forze dell’ordine e rifugiarsi nella stanza antipanico. Da allora, il vignettista vive sotto lo strettissimo controllo dei suoi angeli custodi, gli agenti del Politiets Efterretningstjeneste, o Pet, o più semplicemente l’intelligence danese.
«Sono gentiluomini che mi seguono dappertutto, quando vado a fare la spesa, quando mangio, quando vado in bagno», dice Westergaard al Riformista, che lo ha raggiunto telefonicamente nel suo bunker di Aarhus. «Oramai mi sono rassegnato. Sarà questa la mia vita sino alla fine. Per fortuna non sono nudista, se no sai che pena per gli agenti starmi dietro?», scherza. Westergaard, dalla voce stanca e provata, ha annunciato il ritiro dalla professione lo scorso giugno. Poco prima del suo 75esimo compleanno («festeggiato cenando con moglie, figli, nipotini e le guardie, ovviamente») e poco dopo esser stato messo in congedo, più o meno forzato, dallo stesso Jyllands-Posten, quando si è venuto a sapere che anche in America stavano progettando di giustiziare Westergaard.
Neanche la pensione lo ha messo al riparo dagli estremisti islamici: «Ricevo continuamente minacce di morte, soprattutto tramite il giornale per il quale ho lavorato sino a poco tempo fa», dice Westergaard. Cosa fa adesso? «Disegno, dipingo quando mi va, ma soprattutto per me stesso. Forse è questa la cosa più importante adesso». Gli chiediamo, allora, se ha altri mezzi per esorcizzare la morte. Uno è la rabbia. «Ne sento tanta dentro di me», ci confessa. Ma precisa: «Non la rabbia violenta, quella appartiene a qualcun altro, io non sono xenofobo, né razzista. Intendo la rabbia positiva, quella che ti fa capire cosa è giusto e cosa è sbagliato. E che è un’ottima difesa quando sei sotto minaccia». Gli chiediamo se conosce Saviano, che vive una situazione molto simile alla sua. Risponde candidamente di no, ma dice di sentirsi spesso con Lars Vilks, altro disegnatore, anch'egli nordico (svedese) e anch'egli finito nell’occhio del ciclone degli estremisti per aver paragonato Maometto a un cane.
In passato, Westergaard ha dichiarato che i musulmani moderati non avrebbero fatto abbastanza per contrapporsi ai più scalmanati. Oggi, rimane più o meno della stessa idea. «Però personalmente non ho problemi con i musulmani danesi. Anche se so che molti di loro mi odiano. Sono fiero del nostro welfare state. Agli immigrati in Danimarca abbiamo dato tutto, soldi, case, libera istruzione per i figli, libertà di culto, le migliori prospettive di vita. In cambio chiediamo solo che vengano rispettati i nostri principi democratici». Ecco, li rispettano? «Da un punto di vista materialistico ci rispettano», precisa. «Ma da quello spirituale odiano la nostra cultura». Non sarà morto il sogno multiculturale dell’Occidente? «Non credo», risponde Westergaard. «Per fortuna nella nostra società sta guadagnando sempre più terreno il materialismo, la secolarizzazione. Ma se, per esempio, vai nelle più arretrate campagne danesi, dove ci sono tanti cristiani fondamentalisti, respiri l’odio nell’aria».
Se Saviano si è pentito di Gomorra, Westergaard non rimpiange nulla di quello che ha disegnato: «Era in gioco la libertà d’espressione. Le vignette volevano solo mettere in discussione un aspetto dell’islam. Fosse successo niente, sarebbe comunque accaduta una situazione simile in futuro. Mi dispiace per i morti nelle proteste, ma non è colpa mia. Sono gli estremisti che hanno giocato sulla frustrazione della popolazione». Qualcuno però, tra cui anche qualche collega, lo ha incolpato di irresponsabilità: «Si sbagliano di grosso. Certi intellettuali, quelli della mia classe, sono spaventati dalle minacce e non si rendono conto che si stanno autocensurando, che stanno rinnegando il loro stesso lavoro». Un complesso di inferiorità, questo, anche di una parte della sinistra? «Senza dubbio, la sinistra vuole sempre proteggere i più deboli, le minoranze. Ma non capiscono che gli estremisti islamici, pur essendo una minoranza, sono una minoranza molto forte, potente e sicura di sé per via della religione. A volte la sinistra è cieca di fronte a simili fenomeni». Così come, secondo il vignettista, i politici sono ciechi di fronte alla guerra in Afghanistan: «È stata inutile, un gravissimo errore. L’Occidente è lì da anni, ma oramai è chiaro che la popolazione locale non vuole accettare i nostri valori, non li comprendono, non hanno alcuna voglia di convertirsi ai diritti umani».
Westergaard si è congedato il primo luglio dai suoi lettori con un'immagine a tutta pagina sul Jyllands Posten: ritrae Don Chisciotte a cavallo, armato di carta e penna. Dietro non Sancho Panza, ma un asino che porta un'incudine con scritto «libertà di espressione» e sopra una bomba che sta per esplodere. Sullo sfondo la mezzaluna. Metafora di un'Europa spesso minacciata, censurata, travolta dalle sue stesse debolezze. Non a caso, spesso Westergaard cita due pungenti esempi storici. Uno è quello del vignettista connazionale Hans Bendix, che faceva satira sui nazisti e che fu messo a tacere dall’allora governo danese per non provocare la Germania. L’altro quello di Pablo Picasso che incontra un ufficiale tedesco nel sud della Francia. Quando questi capisce con chi sta parlando, gli chiede: «Ah, dunque sei tu ad aver realizzato la Guernica?». La risposta di Picasso: «Non sono stato io, ma tu».
Da Il Riformista, 01/08/10
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