DA NOCERA A MONACO. La sua agenzia di compra-vendita ha sfornato operazioni d’oro per i suoi assistiti Nedved, Ibrahimovic, Maxwell e tutti gli altri campioni o meteore. Parla sei lingue, «l’italiano peggio». Ma, grazie a metodi di scuola Moggi, quando c’è da trattare lo capiscono tutti. E spesso obbediscono.
Stadio Olimpico di Torino, 31 maggio 2009. In campo ci sono la Juventus dell'ex traghettatore - poi allenatore full-time - Ciro Ferrara e la Lazio del sempre più ex mister Delio Rossi per l'ultima giornata di Serie A. La posta in palio del match è vacua. I biancocelesti, freschi bardati di Coppa Italia, sono in Uefa e tranquilli a metà classifica. La Vecchia Signora si è guadagnata la qualificazione diretta in Champions League sette giorni prima. La partita finisce 2-0 per la Juve grazie a una doppietta del sempre più decisivo Iaquinta.
In verità, Juve-Lazio vale più di quel che sembra. È l'ultima del campione ceco Pavel Nedved su un campo di calcio. Tanto che, a fine partita, l'ex Pallone d'Oro biondo platino di Cheb viene osannato dai paganti e dai compagni di squadra per il suo addio al calcio. Lacrime, abbracci e assordanti fanfare di «grazie» tingono di cupa tristezza il cielo di Torino - nell'attesa che il neoacquisto Diego possa schiarirlo.
Ma la festa, un po' come accaduto la settimana prima a Paolo Maldini, viene rovinata. Mino Raiola, il procuratore di Nedved, dichiara alla stampa pochi minuti dopo il commiato del popolo juventino al ceco: «Fra dieci giorni comincerà a stufarsi e vorrà riprendere a correre. Fino al primo settembre cercherò di piazzarlo nelle migliori squadre del mondo». Un fulmine a cielo già rabbuiato per i tifosi bianconeri, che stentano a credere alle rivelazioni del procuratore.
Pavel non ha mai smaltito la delusione di aver mancato la sua unica finale di Champions League. Quella del 2003 all'Old Trafford di Manchester contro il Milan, sfuggitagli per un inutile fallo sull'inglese McManaman nella semifinale di ritorno contro il Real Madrid, a risultato già acquisito. Un costante rimorso che, probabilmente, lo spingerebbe a sgobbare per un'altra stagione, pur di prendersi la rivincita. Ciononostante, non è la prima volta che Nedved, ma forse sarebbe meglio dire Raiola, punta i piedi alla Juve. Qualche anno fa lo bramava intensamente l'Inter di Mancini. Nella circostanza, a contratto del ceco in scadenza, Raiola strappò alla neodirigenza Juve la modica cifra di 3,8 milioni di euro l'anno per il rinnovo dell'ala trentacinquenne.
Un grande colpo per Carmine "Mino" Raiola, 41enne di Nocera Inferiore, fedelissimo della precedente Juve di Luciano Moggi. Ma arrivare a tali vette calcistiche non è stato un gioco da ragazzi. Appena nato, Mino si trasferisce con la famiglia dalla Campania ad Haarlem. Haarlem non il quartiere afro-black di New York (che comunque sfoggia una "a" in meno), bensì la piccola cittadina olandese a 20 km ad ovest di Amsterdam. Dove fa il pizzaiolo nel ristorante di famiglia. Un business redditizio, visto che i Raiola, dopo poco tempo, aprono un'altra decina di locali. Gli olandesi chiamano Mino «mangia-spaghetti», lui ribatte con «mangia-patate». Capiranno presto che il mangia-spaghetti di Nocera non s'intende solo di cucina italiana.
Raiola, infatti, entra nella dirigenza della squadra dell'Haarlem a 18 anni. Di lì comincia a frequentare i locali di Amsterdam colmi di giovani calciatori da assistere. Che questo sia il mestiere del futuro, Raiola lo capisce subito. La legge Bosman del 1995, che liberalizza la circolazione dei calciatori, ne sarà la conferma.
Il primo contatto con la Serie A è con il Napoli del corregionale Ferlaino. Raiola ha sotto mano una giovane promessa olandese, un certo Dennis Bergkamp. Per due miliardi di lire l'affare si può fare e il presidente partenopeo ha la parola del pizzaiolo olandese. Ma Raiola fiuta un affare migliore e si rimangia tutto. Bergkamp finisce all'Inter per 20 miliardi. L'amore tra Mino e Napoli sfiorisce prima del nascere.
Raiola, però, sa bene che nell'Italia anni 90, con la Serie A molto più appetibile di oggi, ci sono le uova d'oro. Oltre a Bergkamp, i primi contatti si materializzano con l'Udinese per il trio Genaux-Walem-Amoroso e con il Foggia per l'olandese Roy. Presto però, tramite l'allenatore dei pugliesi Zdenek Zeman, Raiola mette le mani su un giovanissimo Pavel Nedved. La svolta, coronata dal passaggio del ceco alla Juve nel 2001, è arrivata. L'attico a Montecarlo - dove tuttora risiede e gestisce la sua agenzia di gestione calciatori Sportman - pure.
Nel consueto ritrovo dei lancieri dell'Ajax, il Palladium Bar di Amsterdam, il poliglotta Mino - padroneggia sei lingue, l'italiano è quella, per sua ammissione, «che parla peggio» - accoglie sotto la sua chioccia la sua futura fortuna. Lo juventino Grygera, la meteora romanista Mido, il terzino dell'Inter Maxwell e, soprattutto, quel geniaccio di Zlatan Ibrahimovic. Che in Olanda, a suon di gol e numeri di alta scuola, viene presto paragonato a Van Basten ed accostato ai top team europei.
Proprio tramite lo svedese, Raiola comincia a tessere l'arazzo che lo legherà a Luciano Moggi, conosciuto, si dice, proprio in uno dei ristoranti di famiglia. Leggendarie le trattative per portare Ibra a Torino, rivelate dalle intercettazioni dell'inchiesta Calciopoli. Zlatan vuole andar via dall'Ajax. La Juve è interessata, ma ci sono anche Roma, Lione e Monaco. «Se entro una settimana questo non è alla Juventus sono c... tuoi» dice Moggi a Raiola a metà 2004, «tu e Ibra continuate a fare la guerra, non mandarlo ad allenarsi. Il Lione e il Monaco offrono 20 milioni? Ibrahimovic viene alla Juve per 12 milioni, a questo ci devi pensare tu». Risponde Raiola: «Domani tengo il giocatore a casa tutto il giorno, all'allenamento non si presenta. Io, poi, ho un appuntamento con i dirigenti dell'Ajax a mezzogiorno, ma mi presento alle due». Dopo poche settimane, Zlatan andrà alla Juve per poco meno di venti milioni, con gli olandesi che ne chiedevano trenta. Complice uno strano litigio tra lo svedese e il condottiero dei lancieri Van Der Vaart (oggi espatriato al Real). Si dice che l'attaccante avesse preteso la sua fascia di capitano per rimanere.
All'arrivo di Ibra a Torino nell'agosto 2004, ci si chiede quale potrà essere la convivenza tra il nuovo acquisto e i totem Del Piero e Trezeguet (che, tramite lo stesso Raiola, Moggi aveva tentato di svendere a prezzi ragguardevoli al Real di Florentino Pérez). Il procuratore è laconico: « Se Zlatan è venuto in Italia, lo ha fatto per giocare». Punto.
E sarà così. Ibrahimovic gioca sempre, a scapito del capitano juventino, segna, sazia le folle di funambolismi improbabili per un sarchiapone della sua stazza. Ma il matrimonio con la Vecchia Signora si rompe presto. Addirittura 5 mesi prima di Calciopoli, come ha rivelato successivamente lo stesso procuratore. Gennaio 2006, Ibra vuole andare via. Moggi chiede a Raiola di procurarsi da qualche club la stessa cifra della vendita di Zidane (140 miliardi di lire) per sbarazzarsi dello svedese. Non ci sarà tempo. Scoppia lo scandalo, Ibra e Raiola puntano i piedi, la nuova società bianconera di Cobolli, Secco e Blanc fa di tutto per trattenere il fuoriclasse, ma non può nulla. Zlatan fugge all'Inter per una ventina di milioni di euro. Meglio di niente. Perché, come rivelato sempre da Mino, con Calciopoli, se avesse voluto, «Ibra avrebbe rescisso il contratto e sarebbe andato al Real Madrid a parametro zero». Oggi la storia si ripete all'Inter e le recenti dichiarazioni dello svedese - «So già dove andrò a giocare» - e del suo procuratore - «se Zlatan decide di andar via, andrà via di sicuro. Nei suoi precedenti trasferimenti è stato il giocatore a imporre la sua volontà» - sono conferme lapalissiane.
Ma lo svedese, che secondo il suo procuratore «vale più di Kakà e Cristiano Ronaldo messi insieme», non è il solo scossone del terromoto Raiola. Il terzino Maxwell, finito nel dimenticatoio di Mourinho dopo l'esplosione del «predestinato» (Lippi dixit) Santon, è un'altra spina nel fianco per i nerazzurri. E per un suo giocatore Raiola non si ferma davanti a nulla, neanche davanti a Zlatan: «Se non ti chiami Ibra, all'Inter con Mourinho sei finito» ha detto per difendere Maxwell. Tanto che avrebbe già offerto il brasiliano ai cugini del Milan, per raggelare ancora di più i rapporti tra le due squadre milanesi, già molto freddi dal caso Vieri e da quando lo stesso Ibrahimovic e Raiola scelsero il trasferimento all'Inter nel 2006, nonostante l'accordo con i rossoneri fosse praticamente concluso. Ciliegina sulla torta le frasi sul milanista Gattuso in occasione della vittoria del Pallone d'Oro di Pavel Nedved: «Lo dedichiamo a lui, che lo non vincerebbe nemmeno con tutti gli sponsor del mondo. Al massimo, gli daranno il pallone di piombo come peggiore calciatore italiano».
Tutto questo è Raiola. Mai (o quasi) fidarsi del "domatore di leoni" di Haarlem (come si definisce lui stesso). Parlare in maniera obliqua - vedi Ibra che «rimane al 99,9% all'Inter, come Mourinho» -, sedersi ad un tavolo e risucchiare quanto più denaro e diritti d'immagine alle società è il suo mestiere. Ama da matti il rischio nel gioco al rialzo economico e nella sfrontatezza nei confronti dei datori di lavoro del suo assistito. Altrimenti Ibra difficilmente godrebbe dell'ingaggio calcistico più alto del pianeta (circa 12 milioni di euro all'anno, due in più del neomadridista Kakà), nonostante la sua costante irrequietezza nerazzurra. Senza contare le incursioni in trattative non propriamente sue. Tra alti - l'ammutinamento romanista di Emerson per farlo firmare con la Juve - e bassi - il mancato convincimento dell'altro giallorosso Mancini a trasferirsi a Torino. Perché nel calcio di oggi comandano i procuratori come Raiola, Bronzetti, Morabito. Nel calcio di oggi ambasciator porta pena. Tanta pena.
Antonello Guerrera
da Il Riformista, 14/06/2009
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