Non bastava lo "shock" di Ben Affleck al posto dell’affezionato Christian Bale. Oramai Batman – lo ha annunciato il suo nuovo interprete – è "vecchio, provato". E, soprattutto, "stanco". L’uomo pipistrello, che nel 2015 tornerà nel sequel dell’
Uomo d’acciaio, non ce la fa più. Fisicamente, ma anche psicologicamente. Riecheggia l’estenuante
Prometeo di Kafka, quando "gli dei si stancarono, le aquile si stancarono, la ferita si richiuse lentamente".
Del resto, oggi una delle parole più ricorrenti nella società e nei media occidentali è "stanchezza". Quando l’attacco in Siria contro Assad sembrava imminente, i giornali americani erano infestati dalla combo "war-weary", "stanchi della guerra". Una risacca già vista negli Usa dopo la Prima Guerra mondiale e sulle rive esangui del Vietnam. Nei suoi recenti discorsi, Obama ha più volte invitato gli americani a esorcizzare la spossatezza. Mentre conservatori come Bill Kristol gli rinfacciavano invece di essere l’artefice dell’odierna stanchezza americana, in quanto
commander-in-chief ambiguo e riluttante.
L’intervento in Siria, tuttavia, è solo un tassello di un mosaico più frastagliato. Come ha scritto il vicedirettore del
Daily Telegraph Benedict Brogan, "tutto l’Occidente", sprimacciato dalla peggiore contrazione economica dal Dopoguerra, "è stanco". Stanco della crisi, delle precarietà sociali, di una certa classe politica ferita dagli errori del passato. Non è la prima volta. Ma forse c’è dell’altro all’ombra di uno
Zeitgeist per cui persino il Papa emerito, Benedetto XVI, si è dimesso poiché terribilmente stanco. O se la prima causa degli incidenti aerei in Regno Unito è la stanchezza dei piloti. O se persino gli spagnoli devoti alla siesta sono così stanchi che ora pensano di cambiare il fuso orario, inedita cassandra. O se, qualche anno fa, il Parlamento dei Paesi Bassi ha addirittura discusso una petizione popolare con l’obiettivo di legalizzare l’eutanasia per gli ultra70enni "stanchi della vita", in scia a un alteratissimo
Sein zum Tode heideggeriano.
Per alcuni, siamo schiavi di una depressa
Società del disagio, come ha notato il sociologo francese Alain Ehrenberg (Einaudi). Per altri, siamo impantanati nella
Società della stanchezza, come ha sintetizzato nell’omonimo saggio (edito da Nottetempo) lo studioso tedesco-coreano Byung-Chul Han. Dal "dolce sterminio" "virtuale" di Baudrillard, il leitmotiv di Han è: siamo stanchi perché viviamo in una società travolta da una positività brutale. In Occidente, l’eccesso di produzione, prestazione e comunicazione genera rigetto neuronale, "infarti psichici" e dunque esaurimento, affaticamento, soffocamento.
Raggiunto da
Repubblica, Han sostiene che la tecnologia, invece di facilitarci la vita, può partorire mostri inquietanti: "L’attuale tecnica digitale ci ha promesso la libertà. In realtà, ci ha reso "mobili" e il lavoro è diventato ubiquo. Ma non è tanto il lavoro che ci sfinisce, quanto l’obbligo di lavorare più duramente, incarnato nel principio della prestazione". "Siamo travolti da informazioni e comunicazione", prosegue Han, "queste, se in eccesso, esercitano violenza su di noi. E così siamo sempre più incapaci di discernere le cose importanti da quelle futili". Anche sui social network, il giudizio di Han è netto: "Facendo il verso al
Publicatio sui di Tertulliano, Facebook e Twitter sono macchine dell’Ego. Nel frattempo i nostri rapporti reali si sfilacciano. E l’ego-ossessione genera stanchezza e depressione, che possono essere sconfitte soltanto dall’eros. Gli smartphone altro non sono che specchi dove ci piace vedere la nostra immagine riflessa".
Da tempo, vari studi scientifici additano a smartphone, tablet e affini le cause dei disturbi del sonno, e quindi di una devastante spossatezza. Che, stando al Royal College of Psychiatrists, affligge addirittura un britannico su cinque. Eppure, dati Ocse alla mano, lavoriamo meno rispetto a venti anni fa. Nerina Ramlakhan, autrice dell’allarmante saggio Tired but Wired ("Stanchi ma connessi"), ha fatto notare che il flusso continuo di informazioni oramai è abnorme e non può essere smaltito dal nostro cervello. Così la materia grigia "non riposa mai".
"Per mancanza di calma, la nostra civiltà sbocca in una nuova barbarie", annotava già a fine XIX secolo Friedrich Nietzsche in Umano troppo umano riferendosi a un’iperattività mortale. Per Edmund Husserl, invece, la stanchezza era addirittura "il più grande pericolo per l’Europa". Tuttavia, lo stesso Husserl sosteneva anche che "dalla cenere della grande stanchezza, rinascerà la fenice di una nuova interiorità di vita e di una nuova spiritualità, il primo annuncio di un grande e remoto futuro dell’umanità". Oggi la penserebbe allo stesso modo?
Articolo apparso su
La Repubblica, 06/10/13